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Light of My Life

Il secondo lungometraggio di Casey Affleck è una personale declinazione del genere distopico e un film sul rapporto padre-figlia.

Un’inquadratura fissa dall’alto riprende due figure stese a terra che si guardano: un padre (Casey Affleck) racconta la storia della buonanotte a sua figlia (Anna Pniowsky) dentro una tenda in mezzo ai boschi. All’esterno la desolazione, perché un virus misterioso ha decimato la popolazione femminile e il mondo è un luogo in cui non è sicuro rimanere nello stesso posto per troppo tempo. Soprattutto se sei un padre che per proteggere la figlia deve mentire riguardo alla sua reale identità. Così Caleb e Rag sono costretti a spostarsi quotidianamente, nascondendosi tra le foreste, lontano dalle città popolate da soli uomini.

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La premessa del secondo lungometraggio di Casey Affleck germoglia dal terreno fertile dei racconti audiovisivi post-apocalittici, tuttavia lo svolgimento si discosta dal genere e intraprende un racconto di formazione su un doppio binario: dietro una ragazza che si affaccia alla vita adulta c’è un genitore che impara a lasciarla crescere. Sollevando il velo della narrazione distopica, Lights of My Life è in realtà un dramma centrato sulla relazione padre-figlia. Scatta istintivamente il confronto con La strada, il romanzo di Cormac McCarthy trasposto al cinema nel 2009 da John Hillcoat. Ma in Light of My Life i toni catastrofici vengono sostituiti da quelli del dramma familiare, perché il focus del film non è tanto l’abbrutimento del genere umano (maschile, in questo caso), quanto piuttosto la tenerezza di un padre nei confronti della sua bambina. Ed è proprio nei momenti più intimi tra Caleb e Rag che Light of My Life gioca le sue carte migliori, poggiandosi sulla forte intesa tra i due attori protagonisti.

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Oltre al microcosmo dei protagonisti, il resto del mondo si articola per tratti abbozzati: non si conosce la causa dell’epidemia che attacca solo le donne né è dato sapere come vive la popolazione al di là della sopravvivenza di Caleb e Rag, i dettagli sono pochi e solo accennati (come il riferimento alle donne nei bunker). Siamo lontani dal futuro degenerato di The Handmaid’s Tale (anche in Light of My Life compare “l’ancella” Elizabeth Moss) e la ferocia di un’umanità cannibale come ne La strada è stemperata e resa meno bestiale. In fondo la distopia si rivela più un pretesto narrativo che uno strumento analitico per passare in rassegna le contraddizioni della società contemporanea. Lontano dal desiderio di creare parallelismi con problematiche attuali, Casey Affleck – che scrive, dirige, interpreta questo secondo lungometraggio, presentato alla 69a Berlinale nella sezione Panorama – chiude il suo universo post-apocalittico dentro una personale “distopia intimista” dove gli avvenimenti sono funzionali allo sviluppo del rapporto tra Caleb e Rag.

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