io non sono qui

Solo scuse per grandi attori per vincere Oscar

«Un altro genere di cui non ho alcun rispetto è il biopic. Sono solo scuse per grandi attori per vincere Oscar. È un cinema corrotto». Qual è il significato dietro a questa provocazione di Quentin Tarantino? Che a volte nel genere – nato per attrarre il pubblico borghese con agiografie su sovrani ed esponenti della società civile -– scenografie, trucco e costumi prendono il sopravvento sul lato artistico? Adatto allo scavare nell'esistenza di personaggi celebri (e non), il cinema biografico ha letteralmente invaso le sale cinematografiche nelle ultime stagioni. Il sistema degli Studios produce regolarmente biopic, nel modo più standardizzato possibile contraddistinti da accademismo della messa in scena, racconto aneddotico e prestigiose prove attoriali. Ne sono un esempio i recenti The Imitation Game e La teoria del tutto. Tuttavia alcuni registi nel corso del tempo hanno saputo donare prospettive inedita al genere, creando opere di forte impianto autoriale e sperimentando con il linguaggio cinematografico. Ecco alcuni degli esempi più audaci e significativi.

The Social Network – David Fincher (2010)
The Social Network è l'archetipo di una società e dei suoi cambiamenti. David Fincher afferra una verbosissima sceneggiatura di Aaron Sorkin (Codice d’Onore, The Newsroom) – tratta da un romanzo basato sugli atti del processo sulla paternità dell’idea-Facebook – e la gira come un'infernale commedia dai dialoghi velocissimi, capace di mettere in mostra l'ambiguità delle relazioni umane e l'invadenza del caso come fattore determinante nella vita. Il Mark Zuckerberg interpretato da Jesse Eisenberg, non è diverso da altri protagonisti del cinema di Fincher: dipendente dal consenso ma allo stesso tempo iconoclasta. Donando alla vita in rete il peso che possiede la vita reale, Zuckerberg è condannato a essere il miliardario più giovane al mondo.

Nick's Movie – Lampi sull'acqua – Wim Wenders (1980)
Nato nella testa dell’Allievo” Wim Wenders come un documentario sul “Maestro”, Nicholas Ray (Johnny Guitar, Gioventù bruciata), Nick’s Movie – Lampi sull'acqua finisce per diventare fatalmente la storia degli ultimi giorni del grande regista americano. Ray, un'intera vita dedicata a creare il prodotto cinematografico perfetto, trasforma la propria fine in un momento artistico decidendo di consegnarsi al pubblico nella veste di un essere umano corroso dal cancro. L'amicizia dei due uomini di cinema, l’uno spettatore della fine dell’altro, riempie di malinconia l'intera pellicola come avveniva nei migliori capitoli di quel cinema hollywoodiano di cui Ray era uno dei massimi esponenti. Dilaniante e reale.

The Aviator – Martin Scorsese (2004)
The Aviator è un film lontano dall'essere perfetto e Martin Scorsese ha diretto opere dello stesso genere storicamente più rilevanti (si pensi a Toro Scatenato per esempio) ma in questo film ha l'opportunità di celebrare la sua magnifica ossessione (il cinema) attraverso la storia di Howard Hughes. E lo fa con passione e tecnica maestosa. Produttore (e regista) mito dell'epoca d’oro di Hollywood, compagno di Katherine Hepburn e Ava Gardner, miliardario amante dell'aviazione, Hughes è ritratto nella sua malattia, causata dal continuo tentativo di superare i limiti della natura e dalla fobia verso tutto quello che è esterno a se stesso. La scelta del protagonista è caduta su Leonardo Di Caprio, che plasma una specie di Edipo perennemente eccitato, fedele alla saga dei tragici eroi urbani del cinema di Scorsese.

Io non sono qui – Todd Haynes (2007)
Dopo aver ritratto la cultura glam anni Settanta in Velvet Goldmine (1998), con Io non sono qui Todd Haynes fa a pezzi Bob Dylan. Sei differenti attori sono stati scelti per rappresentarlo in sei allegorie della sua intensa vita artistica. Dylan è un bimbo di colore, vagabondo in un malinconico Sud. È un poeta beat che tutti chiamano Rimbaud. È una rockstar con il volto di Heath Ledger innamorato di una donna (Charlotte Gainsbourg) bella come Anna Karina nei film di Godard. È un cantante di protesta, interpretato da Christian Bale. È un vecchio, impersonato da un desolato Richard Gere, in fuga dalla sua stessa ombra in un western crepuscolare come quello dei film di Sam Peckinpah. Dylan è un cadavere con il corpo di Cate Blanchett che si aggira tra camere d'alberghi e feste popolate da presenze felliniane. L'effetto è quello di un cinema frammentato, dominato da una forte libertà espressiva dove la citazione (cinematografica e non) sembra essere il collante.

Lawrence d'Arabia – David Lean (1962)
Le dune del deserto d'Arabia su cui è possibile rotolare senza muschio, le musiche di Maurice Jarre, gli occhi azzurri di Peter O'Toole. Lawrence d'Arabia è cinema totalizzante e inattaccabile, mitologia indissolubile. Thomas Edward Lawrence, definito da Churchill come “uno dei più grandi esseri umani dei nostri tempi”, è il tenente inglese che con coraggio e disobbedienza alla gerarchia militare ha guidato il popolo arabo nella rivolta contro i turchi nel 1916. Tra resoconto storico e avventura David Lean orchestra un film furioso e contraddittorio; un ritratto eroico di un uomo che dubitava del suo eroismo, uno spettacolo segnato da battaglie magnificamente coreografate e dalla loro condanna. Cinema che impressiona per sempre quello che la storia potrebbe dimenticare.

Hunger – Steve McQueen (2008)
Hunger di Steve McQueen è la storia del calvario del leggendario Bobby Sands (interpretato da Michael Fassbender) indipendentista nordirlandese condannato a 14 anni per possesso d'arma da fuoco. Per protestare contro l'abolizione dello status di “categoria speciale” iniziò nel'81 nel carcere “Maze” di Long Kesh un mortale sciopero della fame. McQueen opta per una narrazione atipica tenendo il protagonista sullo sfondo per gran parte della vicenda e scomponendo il racconto in tre sezioni: la distruzione della dignità dei prigionieri dell'“H-Block” attraverso percosse e violenze da parte degli aguzzini; Bobby Sands che comunica al parroco l'inizio della contestazione (sequenza costruita da un piano sequenza di 17 minuti a camera fissa); gli ultimi giorni di Sands. Un vero martirio filmato senza nessun compiacimento estetizzante.

Il divo – Paolo Sorrentino (2008)
Ne Il Divo – La Spettacolare vita di Giulio Andreotti (questo è il titolo per intero), Paolo Sorrentino scrive e dirige evitando gli schemi dei biopic contemporanei, rifacendosi piuttosto al cinema civile degli anni Settanta: l'iper-realismo e la potenza narrativa di Francesco Rosi sono uniti all'assurdo e al simbolismo di Elio Petri. Il regista napoletano non è un cronista della vita di Andreotti – e i dubbi seminati sono più delle risposte date – ma un osservatore degli effetti annichilenti del Potere. La maschera grottesca dell'uomo che ha tirato i fili di quarant'anni della storia politica italiana è indossata da un malefico Toni Servillo. Regia fortemente stilizzata, montaggio e scelte musicali postmoderne danno alla storia un sapore visionario.

La nota blu – Andrzej Zulawski (1991)
La nota blu che dà il titolo al film allude a una particolare nota musicale che terminava ogni concerto di Chopin che solo la scrittrice George Sand, sua amante, riusciva a riconoscere. Il film è ambientato in un giorno d'estate del 1846, l'ultimo della vita del geniale compositore malato di tubercolosi. L'occhio di Andrzej Zulawski è morbosamente attratto dalla torbida relazione tra il musicista e la giovane Solange Sand, figlia di Madame Sand, e dalla decadenza fisica e creativa dell'artista. Così dolce e così perverso, La Nota Blu è fuori dagli schemi del genere biografico come il cinema di Andrzej Wajda e Ken Russell, autori a cui Zulawski si ispira più o meno esplicitamente.

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