The-Imitation-Game

The Imitation Game – Morten Tyldun

Di film sui guru dell’informatica, del web e della tecnologia recente se ne producono molti. Best-seller iperrealisti ricostruiscono vite apparentemente straordinarie che si lasciano dietro un’ombra lunghissima di leggende metropolitane a cui si può scegliere di credere oppure no. In ogni caso, le produzioni sanno che gli eroi di oggi sono questi, uomini dai mille difetti, dal carattere spesso ingestibile, cavalieri indomabili del moderno e post-moderno che hanno combattuto e vinto le loro battaglie a spese di chi li circondava.

The Imitation Game è, però, un’eccezione. Alan Turing, qui interpretato da Benedict Cumberbatch, è un matematico criptoanalista che cercando di risolvere il gioco più complicato mai visto, finisce non solo per contribuire a sconfiggere Hitler, ma anche per inventare la macchina che ancora oggi noi usiamo con il nome di computer. Alan Turing è un eroe e un genio, riconosciuto come tale solo nel 2012. Fino ad allora, per oltre 50 anni, Turing è stato soltanto un logico-matematico finito suicida dopo una condanna per atti osceni: la sua omosessualità era la sua grande colpa.

La strana e coinvolgente storia di Turing viene qui diretta da Morten Tyldum, regista norvegese già autore di Headhunters. Il suo lavoro è stato di certosina amministrazione delle inquadrature, specie in fase di montaggio. Cumberbatch è praticamente presente in ogni scena, plastico, ben visibile e mai troppo lontano dalla macchina da presa. Gli altri, invece, guadagnano spazio nella composizione man mano che il loro rapporto con Turing si inasprisce: lo scontro sembra essere l’unico modo per poter realmente interagire con un uomo tanto problematico.

Le interpretazioni del cast sono tutte notevoli, a partire da Cumberbatch, oramai lanciato nell’Olimpo Hollywoodiano (e sicuramente, prestissimo, vincitore di un premio Oscar), passando per Keira Knightley che di Joan Clarke crea un ritratto gradevole, senza dimenticare i lati negativi di una personalità forte, ma incredibilmente in anticipo rispetto ai tempi della società. Lodevole è l’utilizzo finalmente originale di quel formidabile caratterista che è Mark Strong, onnipresente in produzioni di qualunque genere ma sempre poco visibile: qui, invece, trova uno spazio vitale in cui muoversi e mettere in scena le sue doti d’attore.

Óscar Faura è il direttore della fotografia che in The Imitation Game decide di andare contro-corrente e non piegarsi alla solita colorazione del periodo del secondo conflitto mondiale. Faura parte da alcune fotografie a colori del periodo per ricreare una colorazione vivida che si muove tra poche tonalità decise senza rendere le situazioni poco credibili. L’apice della storia coincide con l’esplosione di colori che si materializzano nella leggendaria Macchina di Turing.

La sceneggiatura, opera di Graham Moore è d’impatto, con dialoghi ben scritti che risultano a tratti geniali, a tratti stucchevoli. Alcune caratteristiche dei personaggi appaiono per pochi secondi per poi sparire nel nulla in favore di altre. Il ritmo viene rallentato e poi accelerato in modo violento, spesso senza una continuità lineare che richiede la costante attenzione dello spettatore.

La storia complessa e commovente di Turing incrocia A Beautiful Mind con il recente filone dei film sulle personalità dell’informatica senza dimenticare la lunga schiera di film supereroistici. Cumberbatch pare essere a suo agio con queste tematiche: qualche mese addietro aveva vestito i panni di Julian Assange nel già dimenticato Quinto Potere. Il suo Alan Turing, genio omosessuale ed eroe senza onori, si presenta come un possibile candidato all’Oscar. Di sicuro, la data d’uscita, è indicativa.

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