Un meridionale, nonostante tutto
Il cinema italiano piange Francesco Rosi, regista capace di rompere muri di silenzio e omertà
Francesco Rosi è stato un grande uomo del Sud. Erede della tradizione filosofica napoletana, attraverso i suoi film ha ricercato un modo nuovo e diverso di essere meridionali. Il pensiero di Fortunato e Salvemini, il teatro di Eduardo, il cinema di Visconti sono all’origine della sua formazione intellettuale e artistica. Nel suo cinema ha espresso il riscatto civile del suo Sud, la ribellione alle mafie, alla corruzione, alla dittatura dell’immobilismo e dell’ignoranza. Quando ancora parlare di mafia al cinema non era di moda, Rosi ha rotto il muro del silenzio e dell’omertà, portando all’attenzione nazionale angoli di Italia dimenticati o che si volevano dimenticare. Senza mai scordarsi che il cinema deve parlare il linguaggio dell’arte anche quando affonda lo sguardo nel reale. Ne è esempio perfetto un capolavoro assoluto come Salvatore Giuliano (1962), opera capitale in grado di coniugare impegno civile e rigore formale, accuratezza storica e originalità espressiva, lucidità e vigore, cronaca e invenzione.
Il Sud di ogni latitudine è stato il set privilegiato per molti suoi film: la Napoli di La sfida (1958) e Le mani sulla città (1963), l’entroterra lucano in Cristo si è fermato a Eboli (1979), la Murgia tra Puglia e Basilicata in Tre Fratelli (1981), il Sud America in Cronaca di una morte annunciata (1987). Il sodalizio con Gian Maria Volonté, tra i più fertili nella carriera dell’attore milanese, avrebbe regalato altre pellicole memorabili. Su tutte l’affresco antimilitarista sulla Grande Guerra Uomini Contro (1971) e il profetico Il caso Mattei (1972), Palma d’Oro a Cannes.
Il suo primo avvicinamento al cinema avvenne nel segno di Charlie Chaplin, quando suo padre, dopo aver visto Il Monello, partecipò a un concorso fotografico facendo interpretare al piccolo Francesco il ruolo che nel film era stato di Jackie Coogan. Dopo l’incontro con Visconti e la fondamentale esperienza di assistente alla regia, nel 1948, sul set di La terra trema, sarebbero venuti venti film. Nel 2012 a Venezia, nello stesso Lido che gli aveva tributato il Leone d’oro per Le mani sulla città, gli è stato assegnato uno storico, e forse un po’ tardivo, Leone d’oro alla Carriera. In una delle ultime interviste, a proposito dei suoi novanta anni e dell’inevitabile declino aveva dichiarato:
«Per la morte provo solo disgusto. Non mi piace. È una stronzata dirlo, perché non piace a nessuno. Però, mi accorgo che tutti i miei film hanno toccato il problema della morte. C’è una punta di metafisica in questo. Quanto alla morte concreta non è che ne ho paura. Ma non mi ci vedo. È come un fotogramma in cui non vorrei esserci. E allora mi illudo di fermare il tempo».
Da oggi sarà il suo cinema a farlo per lui. Il cinema di un uomo acuto e tenace, coraggioso e coerente. Il cinema di un Meridionale nonostante tutto.