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Dovlatov

Se non vieni pubblicato non lavori, se il pubblico non legge le tue opere non stai scrivendo, se non stai scrivendo non sei uno scrittore, se ti chiami Sergej Dovlatov allora non esisti. Aleksey German Jr., regista russo, figlio d’arte, presenta sul grande schermo una storia travagliata di mobbing intellettuale nella Russia socialista di fine Novecento. La trama si basa sulle vicissitudini dello scrittore russo Sergej Dovlatov, che non essendo allineato ai dettami artistici del partito, non riesce ad emergere sprofondando in un’anticamera affollata, piena di artisti, pittori e scrittori ignorati e quindi condannati all’oblio. Il film, presentato alla Berlinale del 2018, vinse l’Orso d’argento come miglior contributo artistico dato all’arte, nello specifico, fu consegnato a Elena Okopnaya per i costumi e la scenografia di questo film. Non è infatti un caso che le ambientazioni e i costumi riportino facilmente all’idea di una Leningrado socialista, ma è forse per le ambientazioni e i personaggi fuori dal coro, e quindi i veri protagonisti di questo film, che la storia prende e accompagna lo spettatore per le sue due ore. I protagonisti sono esterni dalle dinamiche di partito, artisti che liberamente cercano di creare e sperano fino in fondo che la disillusione che provano per la ormai corrotta e mancata esperienza di rinnovamento socialista possa ancora riprendersi. Questi outsider come il protagonista Sergej (recitato da Milan Maric) sono attaccati ai luoghi e alla loro terra con una passione primordiale e un ardore autentico. Essi sono ombre per il partito ma vivono la gente, quella che a spese proprie fa quotidianamente la rivoluzione più che chiunque altro. Dichiarati outsider dalle alte sfere, li troverai a vivere là dove i lavoratori si riposano e bevono un bicchiere, laddove le persone si nascondono per pensare e vivere per un attimo liberi e con la propria testa.

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German infatti crea un film fiume, che scorre sulla vita del protagonista con ritmo inesorabile e uno svolgimento improvvisato come una canzone Jazz. Tutto accade nel quadro o fuori di esso senza o con pochissimo montaggio, tutto ha il tempo del reale che se non esprime un’attesa disattesa esprime un movimento di uomini e donne che non vanno, non possono andare, da nessuna parte, sia essa una direzione fisica o spirituale. È un limbo fatto di luoghi e persone che girano, ci girano intorno senza mai raggiungere l’obbiettivo. Tutti appunto talentuosi poveri diavoli nell’anticamera dell’arte che conta, un’arte lontana e abbagliante pregna di un canovaccio imposto dal partito. Ma la questione è restare integri anche a costo di un prezzo altissimo. Alla fine dei conti la domanda è capire quale sia l’obbiettivo e scegliere chi se non te stesso possa ritenerlo raggiunto. Una domanda che gli artisti russi invisibili ci insegnano a loro spese. Sarà la storia a riportare in auge gli scritti di Sergej Dovlatov che morirà negli Stati Uniti senza sapere che finalmente fu pubblicato.

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La critica e il messaggio di questo film non ha una delimitazione storica precisa, essa accenna spesso e volentieri agli espressionisti francesi, ancora di speranza storica che rincuora le preoccupazioni e la mancanza di successo degli artisti invisibili russi. Si vuole infatti puntare il dito contro qualsiasi dittatura politica o economica sull’arte, che tolto il periodo storico, rimane sempre una questione attuale e molto pericolosa. Questa chiusura mentale o la mercificazione di artisti e opere rappresentano il nemico della libertà di espressione, siano esse ai danni delle avanguardie artistiche o degli esseri umani pensanti.

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