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Sound of Metal

Oltre a raccontare l'apprendimento di un nuovo modo di percepire e comunicare da parte del protagonista, il film, attraverso un magistrale lavoro di sound design, offre allo spettatore la possibilità di percepire la vera e propria soggettiva acustica di un ipoudente.

Tra le numerose e inattese conseguenze che i  lunghi mesi di lockdown hanno prodotto sul pianeta Terra, una potrebbe essere sfuggita alla nostra percezione. Uno studio promosso dall’Università del Michigan ha rilevato nella primavera del 2020 un dimezzamento dell’energia sonora sviluppata dalle attività umane, rispetto ai primi due mesi dell’anno: in sostanza un rumore ambientale ridotto del 50%. Il crollo della circolazione e degli spostamenti su mezzi di trasporto ha precipitato il nostro mondo, di solito immerso nel rumore, dentro un ovattato silenzio. E’ stata necessaria una malattia per rimodulare la nostra percezione del suono, costringendoci a fare i conti con qualcosa che le nostre orecchie avevano da tempo dimenticato, e di cui forse più di qualcuno ha paura: il silenzio.

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Una esperienza analoga è quella che vive il protagonista del film Sound of Metal. Ruben Stone (Riz Ahmed) è un batterista di un duo metal, i “Blackgammon”, insieme alla sua ragazza e cantante Lou (Olivia Cooke). I decibel sparati durante registrazioni ed esibizioni dal vivo sono pane quotidiano per i suoi timpani e garanzia di adrenalina allo stato puro. Durante un concerto qualcosa, nella sua soglia uditiva, comincia a cambiare. Improvvisamente una barriera sembra interporsi fra le sue orecchie e il resto del mondo, fra il suo cuore e la musica da sempre amata. Un disturbo dell’apparato uditivo (legato all’esposizione al rumore o alla dipendenza da droghe) condanna rapidamente Ruben alla perdita quasi completa dell’udito. La sfida che Ruben dovrà affrontare, aiutato da chi ha vissuto la stessa esperienza prima di lui, sarà difficilissima: rinunciare al vecchio modo di comunicare e impararne uno completamente nuovo.

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E’ proprio sulla forma (e sulle forme) del linguaggio che l’ottimo film diretto da Darius Marder e scritto insieme a Derek Cianfrance riflette con maggiore profondità.  La perdita dell’udito, per Ruben, rappresenta il punto di partenza obbligato per l’apprendimento di un nuovo modo di percepire e comunicare, fondato essenzialmente sul contatto visivo. Rinunciare alla vecchia “lingua” dei suoni non sarà facile , ma il progressivo adattamento alla nuova condizione gli offrirà una altrettanto nuova, e preziosa, lente con cui guardare il mondo. Attraverso i suoi occhi impariamo il linguaggio dei segni: un codice non verbale, che l’ottima versione con i sottotitoli in italiano opportunamente omette di “tradurre”, costringendoci alla stessa fatica vissuta dal protagonista del film. A fare da contrappunto sonoro alle immagini è un magistrale sound design, che regala allo spettatore la possibilità di percepire la vera e propria soggettiva acustica di un ipoudente. Una prospettiva sorprendente ed inedita, tanto per il protagonista del film quanto per noi spettatori, abituati a sentire ma non sempre ad ascoltare.

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