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Shirley

Un film che mette in scena i labirinti interiori dell’autrice Shirley Jackson. Un biopic non convenzionale dove la fantasia trasfigura la realtà.

«Preferisco scrivere che fare qualsiasi altra cosa». Si legge così nel libro Paranoia (Adelphi, 2018) che raccoglie alcuni scritti e quattro racconti inediti di Shirley Jackson. E a Shirley Jackson, in effetti, piace scrivere (romanzi e racconti) e detesta il ruolo che la società americana degli anni ’50 ha scelto per lei: quello di casalinga la cui priorità è portare in tavola con il sorriso prelibati piatti per tutta la famiglia. Ma la Jackson, che si sente un po’ strega, indossa a fatica i panni della perfetta donna di casa e si rifugia invece in un mondo immaginario di storie, anche perché, come scrive lei stessa, «il novanta per cento della mia vita si è comunque svolto nella mia testa».

Shirley

Da una parte i fatti, la realtà, dall’altra le visioni, la finzione: anche la regista americana Josephine Decker, classe 1981, segue questo scollamento per raccontare Shirley Jackson. Così il suo Shirley (tratto dall’omonimo romanzo di Susan Scarf Merrell del 2014) si presenta all’apparenza come un biopic che narra una parte della vita della scrittrice: siamo all’inizio degli anni ’50, a North Bennington, nel Vermont, dove abitano Shirley Jackson (la bravissima Elisabeth Moss) e suo marito Stanley Edgar Hyman (Michael Stuhlbarg), docente e critico letterario. I coniugi ospitano a casa loro una giovane coppia, Fred (Logan Lerman), assistente di Stanley all’università, e la moglie incinta Rose (Odessa Young). Ma Shilrey sembra poco interessato a ricostruire gli episodi di una biografia e si concentra piuttosto sulle dinamiche tra i personaggi: le tensioni fra Stanley e Shirley (che mal sopportava i continui tradimenti del marito) si riflettono su Fred e Rose in un gioco di rispecchiamenti, mentre il rapporto tra le due donne si muove su confini ambigui, sempre in bilico tra attrazione e repulsione. La Decker sposta in secondo piano gli avvenimenti ed esplora l’universo caotico di Shirley Jackson. A ben vedere lo stile allucinatorio della regista (qualche esempio? Butter on the Latch, Madeline’s Madeline) è perfettamente compatibile con l’immaginario perturbante di una delle più grandi scrittrici americane del Novecento. E dietro le citazioni esplicite delle opere della Jackson (soprattutto il racconto The Lottery e il romanzo Hangsaman), la Decker tesse una rete di suggestioni che richiamano le invenzioni letterarie della scrittrice: funghi velenosi, rituali di magia, ragazze scomparse, sdoppiamenti, fantasmi.

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C’è una forte affinità tra regista e scrittrice, entrambe mettono in scena allucinazioni a occhi aperti e raccontano quello che produce una mente (femminile) fantasiosa: tante fra le protagoniste dei romanzi e racconti della Jackson sono instabili, emotivamente fragili, se non addirittura folli. E proprio nel rispecchiamento tra Shirley e la giovane Rose (a cui il marito affida tutta la responsabilità del figlio appena nato, mentre lui intrattiene relazioni con le studentesse) emerge il disegno di opprimenti convenzioni sociali che schiacciano e soffocano le donne tra le mura domestiche. E allora cosa succede a tutte le ragazze smarrite, disorientate, perse? «They go mad», risponde cinica ma consapevole Shirley nel film. Sempre fuori posto, controcorrente, costretta nel ruolo non voluto di brava e docile casalinga, Shirley Jackson dà sfogo alla sua geniale fantasia. Così le visioni prendono il sopravvento, guidate dalla mano capace della regista Josephine Decker che, con suo Shirley (presentato alla 70a Berlinale e premiato al Sundance), dirige un “finto biopic” su una immensa scrittrice.

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