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Funny Face

Funny Face è un dispositivo pronto a deflagrare ma destinato a non farlo, ma un film che raccoglie e mette in scena istanze urgenti.

Curiosamente l’ultima fatica di Tim Sutton si chiama Funny Face, come il musical del 1957 di Stanley Donen. Siamo però agli antipodi rispetto a Cenerentola a Parigi -titolo italiano del film di Donen- in cui la fotografia di Ray June e le complesse scenografie di Hal Pereira e George W. Davis, tra sfilate di moda e bistrot parigini, consacrarono Audrey Hepburn. Funny Face di Tim Sutton è, appunto, altra cosa. Già presentato all’ultima Berlinale, il film sbarca in Italia al Torino Film Festival 38, in quelle “Stanze di Rol” che ha assolto l’arduo compito di raccogliere le tendenze e le contaminazioni di genere delle sezioni “After Hours” e “Onde”. Sutton è cineasta di assoluto valore nel panorama indie o, per dirla come Pier Maria Bocchi, che il film lo ha selezionato, «una delle firme meno allineate e meno conformi del panorama contemporaneo del cinema indipendente statunitense». E, dopo lo sconvolgente Dark Night, Funny Face è un’opera intensa, indisciplinata nella narrazione e densa nel contenuto.

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Al centro della pellicola, due emarginati, due individui del sottosuolo come Zama e Saul. In fuga dall’ortodossia religiosa della sua famiglia, Zama incontra Saul, inizialmente celato con prudenza dietro la sua fedele maschera, nel drugstore in cui lavora il giovane. I due iniziano un errare urbano che disegna un cerchio piuttosto che un tracciante, Zama e Saul non sono Bonnie e Clyde e la loro fuga viene spesso e volentieri interrotta da lusinghe consumistiche. Per lunghi tratti, ci si affeziona alla coppia e all’atipicità della loro relazione, condensata in momenti di spontanea tenerezza, e si dimentica che Saul coltivi un piano di vendetta. Infatti, nei palazzi di vetro del potere si ordiscono basse trame e la speculazione edilizia, personificata efficacemente da Jonny Lee Miller (sì, il Sick Boy di Trainspotting), minaccia l’abbattimento dell’abitazione di Saul e dei nonni, in favore dell’edificazione dell’ennesima funzionale area parking. E poco importa se qui Sutton cede a qualche stereotipo dell’iconografia del capitale -come la cena autocelebrativa fra ricchi businessmen- o al virtuosismo della sequenza orgiastica, il personaggio senza nome di Lee Miller ha una sua profondità. E questa viene conferita anche grazie al dialogo ben costruito con il padre dove, in uno scalcinato quanto metaforico locale, sono due modelli di business a scontrarsi, quello predatorio delle nuove leve e quello, ormai in disuso, osservante del benessere collettivo. Metodologia affaristica la prima, ci suggerisce Sutton, che non mostra alcun riconoscimento e, anzi, spesso ricopre di debiti, oltre che esporre a ritorsioni.

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Se i fratelli Safdie immergono le disavventure e lo strepitare di Howard Ratner nella Diamond Street, cuore di una Manhattan brulicante, Sutton -anch’esso originario di New York- si sposta in una pressochè deserta Coney Island, quartiere residenziale di Brooklyn. Le sollecitazioni della trasfigurazione urbanistica diventa una riflessione imprescindibile di Funny Face nella composizione di molte inquadrature. Senza soluzione di continuità, Saul e Zama calcano vie tra grandi magazzini, edifici for rent e ristoranti etnici. Il capitalismo ha mutato anche la fisionomia allo spazio urbano, trattandolo alla stregua di una categoria merceologica. In questo meccanismo così collaudato e difficile da invertire, la ribellione di Zama e Saul è un rigurgito destinato ad assorbirsi. Saul indossa la maschera ma non è un eroe greco, non è Travis Bickle né tantomeno James Dean che pure ne abita i sogni. La sua furia iconoclasta rimane irrigidita in posture, come cristallizzata è l’espressione della sua maschera, e l’azione vanificata. Il ritrovamento di brandelli di serenità quotidiana potrà essere terapeutico ma non certamente rimedio universale e non è (più) trascurabile il disagio generazionale di Saul e Zama.

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