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Favolacce

I fratelli d'Innocenzo mostrano un altro lato della periferia romana, mettendo a nudo la brutalità dei padri e la subalternità delle madri, fino a cedere a spinte centripete e (auto)distruttive.

Una voice over riporta il ritrovamento di un diario. L’espediente narrativo, oltre a confermare l’ispirazione letteraria dei fratelli D’Innocenzo, immerge in 98 minuti di cinema purissimo. Favolacce, il secondo grande film dei gemelli romani, ne sancisce la straordinaria maturità e il passaggio da giovani promettenti ad autori talentuosi. La periferia sud della capitale, mai effettivamente caratterizzata come tale ma tradita dal romanesco biascicato dai protagonisti, diventa un microcosmo, sospeso e sottratto al tempo.

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Alle porte dell’estate, tra villette a schiera mono-familiari, si incastrano le vite di genitori e figli nella delicata età pre-adolescenziale. Ben presto però il loro incedere, apparentemente senza finalità, tradisce nervosismi e tensioni latenti. Al netto del paradigma tardo-capitalista, che pure latita nelle sollecitazioni consumistiche –su tutte il SUV e la piscina-, l’interesse dei D’Innocenzo ruota attorno alla condizione di umano disagio dei protagonisti. La liminale rispettabilità tra vicini di casa svela, in realtà, un sottotesto di odiosità, un’umanità meschina, irrimediabilmente corrotta nell’essenza, e dalla difficilissima redenzione. La barriera di incomunicabilità eretta fra genitori e prole è invalicabile. I primi sordi nei confronti delle esigenze dei figli, i quali vengono convocati nelle cene di vicinato, come giullari di corte, per sciorinare gli ottimi voti in pagella o sottoposti, alla guida di pick up, a riti di machismo. E, inevitabilmente, la sincerità dei bambini, alle prese con il meccanismo di attrazione-repulsione dinnanzi alla sessualità, mette a nudo impietosamente la brutalità dei padri e la subalternità delle madri, fino a cedere a spinte centripete e (auto)distruttive.

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Sostenuta da prove attoriali convincenti che esaltano la dimensione corale, sorprende l’esattezza della messa in scena di Favolacce, talvolta quasi discreta nell’evitare di indugiare sulle scabrosità della materia umana. La coerenza dei D’Innocenzo si dimostra proprio nella padronanza del medium cinema, sfruttato nel pieno del suo potenziale semantico, senza alcuna controproducente reverenza o, al contrario, facile virtuosismo. Un scrittura fresca e un universo visuale –non visivo- con un unico limite esogeno. Infatti, premiato all’ultima Berlinale con l’Orso d’argento, Favolacce è vittima illustre del noto virus che ne ha stravolto la programmazione. La distribuzione on demand, a partire dall’11 maggio, per quanto capillare, risulta un po’ dispersiva rispetto alla fruizione canonica che avrebbe probabilmente intercettato un più ampio pubblico e consolidato, qualora ce ne fosse bisogno, l’imprescindibilità di un certo modo di fare cinema dalla sala come luogo deputato.

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