Todd Haynes è sempre stato un autore che ha incarnato un’idea di cinema nostalgico, che si rifà al passato non solo per quel che riguarda l’aspetto narrativo, ma anche e soprattutto dal punto di vista del linguaggio cinematografico e dello stile. Dopo aver rimesso in scena in una miniserie HBO Mildred Pierce (2011), dopo aver strizzato l’occhio al melodramma hollywoodiano e nello specifico a Douglas Sirk con Far From Heaven (2002) e con il più recente Carol (2015), un film sugli anni ’50 che sembra un film degli anni ’50, il regista californiano mette in scena Wonderstruck (2018), tratto da un romanzo di Brian Selznick (adattato per il cinema dallo stesso Selznick), già autore di Hugo Cabret, che divenne poi un pluripremiato film di Martin Scorsese. Qui come allora c’è un forte interesse per il cinema e le sue origini, non più la spettacolarità di George Meliés, ma il diorama e i modellini.
La narrazione si svolge su due piani temporali passati, distanziandosi l’uno dall’altro di mezzo secolo. Ben è un dodicenne del 1977, vive a Gunnflint, Minnesota e, dopo aver perso la madre (Michelle Williams) e l’udito a causa di uno sfortunato incidente, decide di fuggire dagli zii tutori e arrivare a New York in cerca del padre. Rose, dodicenne del 1927, è affetta da sordità congenita, vive a Hoboken, New Jersey con il padre dopo lo scandaloso divorzio dalla madre, star del cinema muto (Julianne Moore). Anche lei, come Ben, decide di raggiungere la Grande Mela per cercare la madre. Entrambi sono alla ricerca di un genitore, in una città sconosciuta, affetti da un grave deficit sensoriale che li renderà vulnerabili al pericolo, ma anche sensibili alle meraviglie che una città come New York e i suoi musei potranno offrirgli.
Il film procede in montaggio alternato, spesso cadenzato da veri e propri raccordi di movimento, creando un effetto straniante al quale però ci si abitua in fretta. La storia di Rose è collocata nel momento in cui il glorioso cinema muto sta tramontando, (il 1927 è l’anno di The Jazz Singer di Alan Crosland, primo film sonoro della storia) ed Haynes decide di girarla come un film muto, volendo ricalcare ancor di più la sordità della ragazzina, ma anche l’amore e il rimpianto verso i grandi film del passato. Emblematica è la sequenza in cui Rose entra al cinema a vedere Daughter of the Storm, dramma in cui la madre è protagonista. Si respira la magia dell’immedesimazione, ci si trova ad essere spettatori di un film muto nel quale la protagonista è a sua volta spettatrice di un film muto e uscendo viene letteralmente travolta e schiacciata dagli striscioni che annunciano l’avvento del sonoro al cinema, sottolineando il disagio di una bambina non udente che si rifugiava nel cinema perché forse l’unico luogo nel quale il rapporto con il mezzo e con il resto del pubblico era paritario e d’ora in poi non potrà più esserlo.
La vicenda di Ben invece trasuda estetica anni’ 70, dai colori, alla grana della pellicola 35 mm, ai poster di Sturky&Hutch, agli scuolabus gialli, alle strade calde e affollate di New York che ricordano un po’ il cinema di Spike Lee. Il vagare muto e bianco e nero di Rose e la ricerca a colori di Ben non sono eventi temporalmente paralleli, ma convergeranno in un finale animato nel bel mezzo del più grande modellino architettonico mai costruito.
Entrambi i giovani attori se la cavano molto bene, coadiuvati da Julianne Moore in un doppio ruolo e ormai alla quarta collaborazione con Haynes. Vale la pena sottolineare la dolcezza e la delicatezza di Millicent Simmonds (Rose), attrice 14enne realmente sordomuta che con la sua ingenua espressività dona un’autenticità straordinaria alla vicenda. Wonderstruck è un film dalla trama semplice, sostanzialmente privo di colpi di scena che non siano largamente prevedibili dallo spettatore. Tuttavia, Haynes cerca altro, concentrandosi sulle relazioni tra esseri umani e i sentimenti che tra questi si creano trasmettendoli in maniera efficace allo spettatore. Il suo personale senso estetico è composto dalle influenze cinefile già citate e da altre (a volte troppo) esplicitamente dichiarate quali ad esempio l’opera di David Bowie (qui con la reiterazione di Space Oddity), o la citazione da Il ventaglio di Lady Windermere di Oscar Wilde: “We are all in the gutter, but some of us are looking at the stars” che si pongono come scintilla che avvia il motore narrativo. Senza scordarsi che lo stesso autore nel 1998 diresse Velvet Goldmine ispirato alla vita di David Bowie e zeppo di rimandi ad Oscar Wilde, a rimarcare l’importanza delle forze del passato nel suo cinema.