Banksy No future (2010). Southampton, UK

Under 35 e quel dannato bisogno di approvazione

Premi, successi e frustrazioni di un teatro “giovane”

Cosa vuol dire giovane? No perché ultimamente sono diventati tutti giovani. Vecchio non si dice ché non sta bene. Anziano è sinonimo ormai di decrepito. Vetusto neanche a pensarlo. Signore o Signora demodé. Uomo o donna discriminante. Adolescenziale offensivo. Fanciullo pascoliano. Prepuberale e puberale troppo scientifici. E se qualcuno ci lascia alla sesta decade si dice che sia morto giovane. La Treccani cosa recita?

giovinézza – L’età intermedia tra l’adolescenza e la maturità, e per estens. tutta la prima età dell’uomo (contrapp. a vecchiezza)

Se adolescenza altro non sta a significare che il culmine dello sviluppo «somatico, neuro-endocrino e psichico», vediamo allora cosa si intende per maturità:

Con riferimento all’uomo: In senso morale e intellettuale, piena e chiara conoscenza dei varî temi e problemi della vita e del sapere, spesso accompagnata da un’adeguata esperienza.

Visto che la Treccani ci parla di «senso morale e intellettuale» e non di affermazione personale, come possiamo distinguere dunque un artista giovane da un artista maturo? Quand’è che l’esperienza può dirsi «adeguata»? È un fatto di età, di gavetta o di riconoscimenti?

Norman Rockwell What Makes It Tick? (The Watchmaker) (1948). Foto ©Christie's

Norman Rockwell What Makes It Tick? (The Watchmaker) (1948). Foto ©Christie’s

Successo e catastrofe

Facciamo subito un esempio pratico. Prendiamo i milanesi Frigoproduzioni. Conosciutisi a Quelli di Grock – scuola di formazione teatrale a pochi passi dalla stazione centrale –, Francesco Alberici (classe ’88) e Claudia Marsicano (’93), cui presto si aggiungerà Daniele Turconi (’87), debuttano nel 2013 con Socialmente.

Di qui, inaugureranno, individualmente, progetti paralleli con realtà più note: Alberici con Deflorian/Tagliarini (Il cielo non è un fondale), Marsicano con LeVieDelFool (prima Made in China, poi, insieme a Turconi, Heretico) e con Silvia Gribaudi (R.osa), collaborazione quest’ultima che le varrà un alquanto precoce Ubu come migliore attrice/performer Under35 a ex aequo con Serena Balivo della Piccola Compagnia Dammacco.

Frigoproduzioni. Foto ©Edizioni Zero

Frigoproduzioni. Foto ©Edizioni Zero

Prodotti dai virtuosi spezzini – altrettanto Under35 – di Fuori Luogo (Ass. Gli Scarti), insieme al Teatro i di Milano, si ripresentano nel 2017 con Tropicana (al trio si unisce Salvatore Aronica): spettacolo che prende le mosse da quella che gli anglofoni chiamerebbero «sophomoricity», ovvero l’ansia da seconda opera. In un’era come la nostra in cui è tutto un mastica e sputa di talenti emergenti, di eterne meteore, Frigoproduzioni dibattono e si dibattono – senza giungere a una possibile soluzione – su un sistema di mercato che sa esigere solamente criteri quantitativamente rilevanti in barba a qualunque identità artistica.

Frigoproduzioni Tropicana. Foto di scena ©Andrea Luporini

Frigoproduzioni Tropicana. Foto di scena ©Andrea Luporini

Giocando con ironia e autoironia metateatrali attorno all’omonimo tormentone anni ’80 Tropicana, del presto tramontato Gruppo Italiano, i quattro attori rintracciano nella strofa della canzone una catastrofe all’orizzonte molto meno leggera di quanto il noto ritornello non lasciasse immaginare, prefigurando apocalitticamente in ciò il destino dei «giovani» talenti  contemporanei.

Ed è significativo che l’intero spettacolo abbia luogo in una scena semi spoglia tutta verde, come fossimo in una green room da studio televisivo in cui non è necessario stabilire un contatto reale con il mondo che ci circonda, basta fare i fenomeni ad hoc e poi il tutto verrà inserito nello sfondo più accattivante.

Frigoproduzioni Tropicana. Foto di scena ©Andrea Luporini

Frigoproduzioni Tropicana. Foto di scena ©Andrea Luporini

Se le premesse e l’idea sono sicuramente brillanti, ciò che sembrerebbe mancareTropicana è un passo ulteriore, una problematizzazione che sviluppi l’idea oltre l’intuizione (in questo sistema di mercato il successo è veramente desiderabile? stante tale situazione, qual è la responsabilità del singolo? e che fine fa l’arte in tutto ciò?), assestandosi su un gusto ironico-arguto di marca tipicamente postmoderna, che nega cioè senza affermare.

Già negli anni ’90 Forster Wallace aveva messo in guardia da una tale deriva, ma quella tendenza è divenuta oggi ormai temperie culturale ed è sempre più difficile maturare solidi anticorpi (l’eterna denuncia nel rap, i pastiche pop nel cosiddetto indie; per il teatro si pensi a Babilonia, Sotterraneo, VicoQuartoMazzini e moltissimi altri). Come scriveva Jedediah Purdy:

La delusione delle speranze politiche e civili seguìta al progressivo smascheramento dei meccanismi e dei fallimenti della pratica politica, ci ha resi cinici e incapaci di sostenere valori che temiamo di vedere umiliati.

Jedediah Purdy For Common Things: Irony, Trust, and Commitment in America Today (1999) [fonte: Luca Sofri su Wittgenstein]

Scontro generazionale

Che i giovani soffrano la loro età soprattutto nel rapporto verticale, gerarchico, con le generazioni precedenti non è certo cosa recente; ma questa tendenza all’autodramma, alla rappresentazione ipercontemporanea e un po’ vittimistica di sé e del proprio disagio nei confronti di un mondo di squali, si sta sicuramente intensificando (vengono in mente Kepler-452, Generazione Disagio, Shebbab Met Project). Peccato però che il cosiddetto sistema continui a rimanere tanto colpevole quanto vago e indeterminato. Il curioso risultato è che se da un canto i giovani teatranti si sentono vampirizzati, dall’altro i meno giovani lamentano un eccesso di attenzione nei confronti dei cosiddetti – con la consueta sottomissione linguistica – Under35.

Chi ha ragione?

Shebbab Met Project I veryferici. Foto di scena ©Stefano Vaja

Shebbab Met Project I veryferici. Foto di scena ©Stefano Vaja

Quanto ci costano i giovani?

Come sempre, tra realtà effettiva e realtà percepita ce ne passa. Un esempio? Il Decreto Ministeriale relativo alla ripartizione del FUS (il Fondo Unico per lo Spettacolo) approvato dalla Corte dei Conti il 17 marzo 2017, dei circa 333 milioni di euro stanziati, alla categoria complessiva «Residenze e Under35» ne assegna poco meno di 3. Parliamo dello 0,88%.

Anche volendo guardare proporzionalmente soltanto ai 70 milioni previsti per il teatro, le «Imprese di produzione teatrale Under 35» assorbono appena il 3,35%; volendo pure includere i «Progetti di ricambio generazionale degli artisti» non arriviamo neanche al 5%. Senza considerare che Scenario, il principale premio italiano dedicato agli artisti emergenti (fra poco ci arriviamo), questo triennio non ha percepito un finanziamento ministeriale. Poi, sì, ci sono i fondi europei, i progetti speciali, i bandi regionali, comunali, delle unione dei comuni, ecc., ma—siamo cauti nelle conclusioni.

Tanto rumore… per nulla?

Perché, allora, la percezione diffusa è che i «giovani» stiano ricevendo troppe premure?

I progetti targati Under 35 non si contano più, è vero, ma se ce ne sono così tanti è anche perché fanno fare bella figura (a chi li organizza) a poco prezzo: un professionista di medio-lungo corso difficilmente accetterebbe condizioni spesso assai misere. Va considerato, inoltre, che se se ne sente parlare molto è anche perché gli emergenti sono coloro che hanno bisogno di fare più rumore per mostrarsi, ve lo immaginate Romeo Castellucci o Giulia Lazzarini a impazzare con post, tag, hashtag, cuoricini colorati e frasette argute per promuoversi?

Al di là dei mezzi adottati e della loro opportunità, la questione è un’altra: cosa rimane di questi fuochi passeggeri? Si deposita qualcosa o compiono la stessa parabola delle meteore dei talent show (nati, sia detto en passant, come strategie di audience development)?

Lichtenstein Varoom! (1963). ©Gagosian

Roy Lichtenstein Varoom! (1963). ©Gagosian

I fattori concomitanti non sono pochi: l’artista sopravvive perché—ha talento? vince un premio? sa accattivarsi le giuste conoscenze? è una lenza con i bandi? è sostenuto da una certa critica? si costruisce un pubblico? ha alle spalle un teatro/centro di produzione? lavora anche in tv o al cinema? opera in una dàta realtà geografica? è connotato politicamente? perché…?

Diciamo che in un momento storico di incertezza tanto economica quanto artistica come il presente, ognuno si muove come può, tanto più che in Italia l’etica non si sa neanche dove sia di casa, anzi, la si confonde continuamente con la morale, in modo tale che se qualcuno poi muove una critica di natura professionale subito la si ributta sul personale trasformandola in una questione di natura privata. Con buona pace della dialettica.

Se non imparo a divenir più saggio, ben imparo almeno a conoscere che non lo sono.

François de La Rochefoucauld Discorso sulle riflessioni (1665)

Francisco de Goya Duelo a garrotazos o La riña (1819). ©Museo del Prado, Madrid

Francisco de Goya Duelo a garrotazos, o La riña (1819). ©Museo del Prado, Madrid

Il miraggio del successo

È il trionfo della cultura berlusconiana. E non è tanto per dire. Per capire gli under 35, infatti, bisogna tenere in considerazione che chi è nato dagli anni ’80 in poi ha progressivamente incontrato una società che puntava al successo facile e all’edonismo consumistico, promossi, in primis, proprio dal cinema e dalla televisione (per non dire dalla politica, lo sport, l’editoria, l’impresa, l’urbanistica) del tycoon milanese.

Maurizio Cattelan If a tree falls in the forest and there is no one around it, does it make a sound (1998). ©Courtesy Galerie Emmanuel Perrotin

Maurizio Cattelan If a tree falls in the forest and there is no one around it, does it make a sound? (1998). ©Courtesy Galerie Emmanuel Perrotin

Questi «giovani» si sono nutriti di quelle merendine, di quei gadget, di quella carta patinata, di quella – effimera – gloria warholiana che è stata loro bombardata tra un programma e l’altro, tra una telenovela e un cartone animato, tra primo e secondo tempo—e che ora pretendono: sono cresciuti con questa illusione. Peccato però che giunti alla maggiore età la truffa commerciale abbia cominciato pian piano ad affacciarsi al loro orizzonte, proprio come emerge in Tropicana. Volendo sintetizzare brutalmente, potremmo dire che si è venuta così a creare una diaspora culturale e ora abbiamo chi a un certo punto si è disilluso e si sta muovendo di conseguenza, e chi invece, ancora oggi, continua a confidare in uno sfavillante, clamoroso e immediato successo.

Jake & Dinos Chapman Minderwertigkinder (2011). ©Chapman Brothers

Jake & Dinos Chapman Minderwertigkinder (2011). ©Chapman Brothers

I primi potremmo chiamarli (vedi sopra) maturi o maturandi, i secondi adolescenti o sprovveduti (di «adeguata esperienza»). La «giovinezza» in quanto dato anagrafico, insomma, è stata ampiamente scavalcata dal «giovanilismo»: non importa quanti anni hai, l’importante è che ti mantenga spigliato, accattivante, spregiudicato, smart, cool e altri simili boiate da spot pubblicitario. Tranquillo però: ti basterà esserlo esternamente, apparirlo, ché di come tu ti senta dentro non importa niente a nessuno.

Il poeta deve ricordare che della triviale prosa della vita è colpevole la sua poesia, mentre l’uomo della vita deve sapere che della inanità dell’arte è colpevole la povertà delle sue esigenze interiori e la fatuità dei suoi problemi vitali.
La persona deve diventare interamente responsabile.

Michail Bachtin L’autore e l’eroe (1979)

Creativi o artisti?

La ricaduta a livello teatrale di questa mutazione culturale è che tanti, troppi spettacoli dei cosiddetti Under35 sono più creativi che artistici (cfr. articoli in calce). «Più creativi» perché mutuano l’efficacia e l’immediatezza della pubblicità (finalizzata a una promozione efficace e a una rapida vendita); «meno artistici» perché, non ponendosi più in continuità con il passato, non reagiscono a una dàta tradizione, anzi, la ignorano proprio (basta il presente «pop»), e la naturale conseguenza è che non potranno mai essere innovativi.

Jeff Koons Dog Balloon (Orange) (1994-2000). Venduto nel 2013 per oltre 53 milioni di dollari. ©Jeff Koons

Jeff Koons Dog Balloon (Orange) (1994-2000). Venduto nel 2013 per oltre 53 milioni di dollari. ©Jeff Koons

Come i cani palloncino di Jeff Koons, scintillanti fuori e vuoti dentro, questi spettacoli sono troppo spesso confezionati per piacere, per colpire, per essere apprezzati «subito» (vedi la piaga del virtuosismo fine a sé stesso), e avendo capito che il pubblico teatrale (soprattutto “quello che conta”, cioè quello che facilita il successo) è o presume di essere più raffinato di quello generalista, non mancano ormai neppure di qualche ingrediente un po’ più «alto» o intellettuale (leggi «non pop») come se questo infondesse chissà quale ricercatezza. Ed evidentemente fanno bene, visto che ci cascano in molti, operatori e critici inclusi (ché l’effetto berlusconiano è retroattivo: vedi il veltronismo).

L’uomo che ha atteso sempre tutto dall’avvenire e ha vissuto con gli occhi fissi al futuro, non trova nulla nel suo passato che lo conforti dalle amarezze del presente; perché il passato è stato per lui solo una serie di tappe attraversate impazientemente.

— Émile Durkheim Il Suicidio (1897)

Gilbert & George Fates (2005). ©Gilbert & George | Tate Gallery, London

Gilbert & George Fates (2005). ©Gilbert & George | Tate Gallery, London

Un’eccezione e mezza a Scenario

Guardare agli esiti di un premio come Scenario, allora, giunto alla sua 30^ edizione, può essere particolarmente indicativo per due ragioni: la prima è che si tratta della realtà più strutturata e capillare nonché longeva sul territorio nazionale, pur con il consueto sbilanciamento al centro nord (solo due soci al Sud: il Bellini a Napoli e i Teatri – Kismet e Abeliano – di Bari); la seconda è che, avendo una forte vocazione progettuale, a parità di livello Scenario si propone di premiare gli studi che hanno dimostrato la maggiore evoluzione nel passaggio da una fase all’altra di selezione, e non necessariamente i migliori in sé.

Al contrario del carnaio dei millemila premietti che vanno prolificando da nord a sud (buoni a ingrassare curricula da una parte e a intercettare fondi dall’altra), Scenario dunque promuove e favorisce quella che, in apertura, abbiamo chiamato «maturità» artistica.

Premio Scenario 2017

Per questa ragione, avendo visto tanto nei 20 minuti quanto nella versione integrale solo i due vincitori ex aequo, tralasceremo il Premio Ustica I Veryferici  dei già citati Shebbab Met Project (che soffre di quella facile retorica e quelle semplificazioni morali – immigrati contro razzisti, disgraziati contro carnefici, spiriti nobili contro laidi corruttori – finora evidenziate) e del Premio Infanzia Da dove guardi il mondo? di Valentina Dal Mas (preziosa contaminazione di danza e teatro che trasforma un apparente blocco-disturbo infantile in reazione creativa; forse un po’ troppo uniforme nello sviluppo).

Valentina Dal Mas Da dove guardi il mondo? Foto di scena ©Stefano Vaja

Valentina Dal Mas Da dove guardi il mondo? Foto di scena ©Stefano Vaja

Proporre nonostante l’ironia

Partiamo con Un eschimese in Amazzonia di Liv Ferracchiati/Compagnia The Baby Walk. Se anche in questo caso il sostrato è decisamente ipercontemporaneo, con un coro di quattro voci che parlano all’unisono come il popolo anonimo del web, sempre pronto a liquidare causticamente qualunque cosa in un rimasticamento di elementi pop, stereotipi e pregiudizi; a fare la differenza è la questione identitaria che, qui, va ben oltre la semplificazione generazionale.

Liv Ferracchiat/The Baby Walk Un eschimese in Amazzonia. Foto di scena ©Stefano Vaja

Liv Ferracchiati/The Baby Walk Un eschimese in Amazzonia. Foto di scena ©Stefano Vaja

Per la prima volta, infatti, Ferracchiati appare in scena, più che come corpo attorale diremmo come oggetto timido e tuttavia presente di quel becero dibattere su queste strane creature non meglio identificate chiamate transgender (l’«Eschimese in Amazzonia», appunto). Prende posizione, si espone: poco importa se lo faccia in veste di sé o come transgender x, il punto è che anziché rivendicare chissà quali diritti, con la consueta retorica dei «giovani», porta avanti la sua normalissima semplicità.

Liv Ferracchiat/The Baby Walk Un eschimese in Amazzonia. Foto di scena ©Stefano Vaja

Liv Ferracchiati/The Baby Walk Un eschimese in Amazzonia. Foto di scena ©Stefano Vaja

Ancora una volta, insomma, The Baby Walk riesce a scartarsi da posizioni apologetiche riportando al centro l’individuo in quanto tale, nella sua fragile, amorevole, complicata ricerca di identità: transgender come apolide consapevole in una società che sempre più sta perdendo di identità.

Liv Ferracchiat/The Baby Walk Un eschimese in Amazzonia. Foto di scena ©Stefano Vaja

Liv Ferracchiati/The Baby Walk Un eschimese in Amazzonia. Foto di scena ©Stefano Vaja

Se nei 20 minuti lo studio rischiava di lasciarsi sommergere troppo dagli elementi pop, nella prima presentazione integrale Un eschimese comincia a guadagnare in compattezza drammaturgica, e forse con qualche ulteriore sfrondamento e giro di vite nei prossimi mesi il lavoro potrà rappresentare un buon esempio di un’opera che nonostante l’arguzia autoironica postmoderna è in grado di «sostenere valori» (vedi sopra).

Una solida anomalia

Infine, c’è il caso «alieno» di Barbara Berti. Felicemente alieno, diremmo. È alieno perché la coreografa bolognese si dimostra totalmente distante da tutto questo brodo chiamato contemporaneità, e se anche lei, in qualche modo, va a toccare la questione dell’identità con ironia, lo fa in una maniera talmente radicale da sparigliare completamente le carte. Cosa vuol dire? Berti non fa ricorso ad alcun facile sostegno dell’immaginario collettivo, anzi, diserta qualunque assertività, presentando un lavoro che difficilmente trova una collocazione tra danza, teatro o – il sempre comodo faldone – performance.

Barbara Berti #BAU2. Foto di scena Stefano Vaja

Barbara Berti BAU#2. Foto di scena Stefano Vaja

Scena vuota. La danzatrice si muove e parla: non ci racconta una storia, no, sembrerebbe apparentemente commentare fra sé e sé i movimenti – dall’ordine improvvisato e di per sè poco significativi – che va compiendo nello spazio; eppure quel dolce parlottio non ha neppure un gusto propriamente ironico, non si accumula mai, è come se evadesse da sé stesso, dal suo dirsi, quasi non reclamasse attenzione.

BAU#2, infatti, è un lavoro incentrato sullo scarto, uno scarto però che non ha una matrice occidentale, non si nega cioè per rinviare a qualcos’altro, è un’autoironia assoluta, completamente distante dalla tentazione dell’analogia.

Barbara Berti #BAU2. Foto di scena Stefano Vaja

Barbara Berti BAU#2. Foto di scena Stefano Vaja

Ineffabile nella sua immediatezza, Berti supera la destrutturazione contemporanea innescando un dispositivo scenico che nel suo tacito dire «non badate a me» porta lo spettatore (laddove l’artista mantenga il giusto equilibrio) a toccare l’impalpabilità della transizioni di stato.

Come spiega la fisica quantistica, noi siamo abituati a ragionare in termini di «prima» e «dopo», impacchettando il tutto in un comodo ordine unidirezionale chiamato tempo. Ma il «durante»? che fine fa? Eludendo il suo stesso agire, Berti ci porta esattamente qui.

Barbara Berti #BAU2. Foto di scena Stefano Vaja

Barbara Berti BAU#2. Foto di scena Stefano Vaja

Seppur ancora distante dalla soglia standard dei 50-60 minuti, l’evoluzione di BAU#2 ha dimostrato che il lavoro affonda le radici in una densa ricerca (artistica, coreutica, fisica, filosofica, ecc.) che non si esaurisce nel singolo spettacolo ma va ben oltre: la prova è che i nuovi elementi introdotti rispetto allo studio presentato a Santarcangelo sconvolgono l’assetto iniziale (una seconda presenza in scena, una sedia che vola via, un esplicito cappello inziale) e al tempo stesso lo mantengono pienamente coerente, amalgamandosi al materiale precedente senza quasi neanche dare all’occhio.

Barbara Berti #BAU2. Foto di scena Stefano Vaja

Barbara Berti BAU#2. Foto di scena Stefano Vaja

Che Berti abbia vinto Scenario è forse uno dei segni più incoraggianti degli ultimi tempi. Soprattutto perché non è un segno clamoroso, non incoraggia tutti quanti a salire sul carro per incensare il vincitore di turno e buttarlo via fra due anni. E sicuramente l’artista bolognese (residente non a caso a Berlino) non avrà vita facile nella scena italiana. Ma rimane un segno importante, attraverso cui forse Cristina Valenti e Stefano Cipiciani ci stanno dicendo molto di più di quanto la semplice voce «Premio» non lascerebbe pensare.

Una scena culturalmente ingolfata

Per ora, però, la maturità artistica di Berti rimane un’eccezione che conferma la regola, o per meglio dire, conferma una tendenza assai diffusa.

Tirando le somme, ad oggi lo scenario ci presenta una generazione culturalmente orfana che si fida assai poco della precedente perché, questo almeno l’assioma, ha mangiato alle sue spalle bruciandole anzitempo l’avvenire. Confondendo pericolosamente i colpevoli padri con il passato tutto, le conseguenze possono essere che (1) vivano empiricamente, cioè di espedienti, non potendo rifarsi all’esempio di qualcun altro; (2) abbiano uno spirito critico molto basso, avendo chiuso le porte preventivamente a ogni eventuale critica; (3) siano estremamente insicuri e, più o meno inconsapevolmente, alla continua ricerca di gratificante approvazione (nei «mi piace», nelle recensioni, nei bandi, nei premi e premietti) che presto o tardi si trasforma in un boomerang di ulteriore insicurezza: è reale l’apprezzamento che ricevo o sono stato io a indurlo?

Meek Begging for change (2004). Sydney, Australia

Meek Begging for change (2004). Sydney, Australia

L’augurio è che l’ambiente teatrale tutto, collettivamente, maturi un atteggiamento più critico nei confronti di questa gloria low-cost, altrimenti il rischio è che di qui a 10-20 anni il teatro italiano si trovi sguarnito di artisti consolidati e rimanga abitato per lo più da una classe culturale eternamente adolescente che si autolegittima e autoassolve per paura di fare i conti con la storia e assumersi la responsabilità di diventare adulta.

Chi autorizza chi? Chi rilascia la patente? Chi è che può vietarci di essere al centro? Chi è quel qualcuno che ci autorizza, che ferma o lascia passare? Chi è quel qualcuno da cui dipendiamo? È un burocrate? Un potente, un sovrano davanti al quale inchinarci? Un padrino da cui sperare benevolenza? Un demonio dell’inferno dantesco? Un mostro imprecisato?

Forse non è un qualcuno; forse è bene non dipendere da qualcuno per accedere al nostro centro: il rischio è di iniziare adolescenti desiderando le stelle e di finire in fretta come servi invecchiati. Quindi occorre davvero rispondere alla domanda, prenderla sul serio, ripetersela incessantemente: chi autorizza chi?

— Marco Martinelli Aristofane a Scampia (2016)

Ascolto consigliato

Letture consigliate

Frigoproduzioni
• Giovani e fragili, nella vita e in scena, di Antonio Audino (Il Sole 24 Ore)
• Pentothal, Tropicana e altre sostanze sceniche, di Fernando Marchiori (aTeatro)
La fine che rischia una giovane compagnia, di Alessandro Toppi (Il Pickwick)
La “Tropicana” amara di Frigoproduzioni, di Francesca Romana Lino (Rumor(s)cena)

Premio Scenario 2017
• Generazione Scenario, ergo sum, di Stefano Casi (casicritici)
• Un’indagine generazionale. Il premio Scenario 2017, di Ilaria Cecchinato e Marzio Badalì (AltreVelocità)
• Premio Scenario 2017: la sfrontatezza scenica ripensa i modelli, di Lucia Medri (TeC)

In apertura: Banksy No Future (2015). Southampton, UK

TROPICANA

con Claudia Marsicano, Daniele Turconi, Salvatore Aronica, Francesco Alberici
drammaturgia di Francesco Alberici
creazione collettiva a cura di Francesco Alberici
aiuto regia Daniele Turconi e Claudia Marsicano
un progetto di Frigoproduzioni
produzione Teatro i | Associazione Culturale Gli Scarti

FuoriLuogo, La Spezia – 8 dicembre 2017

UN ESCHIMESE IN AMAZZONIA

ideazione e testo Liv Ferracchiati
di e con Greta Cappelletti, Laura Dondi, Liv Ferracchiati, Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli
suono Giacomo Agnifili
produzione The Baby Walk

Teatri di Vita, Bologna – 2 dicembre 2017

BAU#2

concept, coreografia, danza, testo Barbara Berti
dramaturg Carlotta Scioldo
danzatrice, assistente luci Liselotte Singer

Teatri di Vita, Bologna – 2 dicembre 2017

Grazie


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