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Strabismi Festival. Un primo sguardo

Per chi vive in una metropoli è difficile approcciarsi alla lentezza: il tempo è durata, pianificazione esasperata, corsa all’impossibile incastro; ma appena ci si sposta dal gorgo dei grandi centri, ecco che l’occhio supera la linea frastagliata dell’orizzonte urbano e coglie finalmente la profondità, respira, si concede alla visione.

È in questo clima di distensione che lo scorso finesettimana lo ZUT di Foligno, nuovo spazio teatrale nato dalla riconversione di un ex-cinema nel pieno centro città, ha accolto Strabismi Festival. Momento conclusivo di un progetto più ampio chiamato Previsioni (che sembra presagire un interessante primavera culturale della città umbra), la rassegna ha visto alternarsi dal 29 al 30 maggio cinque nascenti compagnie nazionali – due locali, ideatrici del progetto, e tre selezionate – molto distanti fra di loro nei linguaggi e nelle forme, ma avvicinate da comuni intenti: questa la direzione intrapresa, questo lo strabismo teatrale, un festival cioè che si propone di aggregare, senza snaturarle, le diversità. Forse, infatti, più che una rassegna, questa tre-giorni ha rappresentato un banco di prova, la scommessa di due giovani realtà fulginati (Giardino delle Utopie e Tilt) di creare un arsenale di debutti per giovani artisti (non in senso strettamente anagrafico) e al tempo stesso promuovere un sano e necessario decentramento culturale del mondo del teatro.

Ad aprire il festival è stato il curioso esperimento sensoriale del Giardino delle Utopie. Come già suggerisce il titolo, Sogni DìVino mesce due elementi: il Sogno di Strindberg e una vera e propria degustazione di vini. La platea è raccolta lungo due file di deliziosi sedili in legno; a lato, ogni spettatore trova una cassetta su cui attendono un lumino, un calice, una barchetta colma di piccoli frutti e cinque pezzi di corteccia impregnati di diverse fragranze.

Foto di scena ©Simone Telari

Nella semioscurità, giunge poi dal fondo una voce off: è la figlia del dio Indra, prossima ad abbandonare la sfera celeste per discendere sulla Terra. Sul palco, allora, al di là di un velo che sgrana la visione, appaiono le tappe di questo percorso onirico: gli incontri della divinità con gli uomini, il confronto immaginato e lo scontro inaspettato con la sfera “inferiore” dei sentimenti. Così, parallelamente, di sogno in sogno il bicchiere sarà colmato di nuovo vino stimolando associazioni con sapori e odori (della frutta e del legno), come ad accompagnare il pubblico dentro e fuori dall’originale strindbergiano (che rimane solo una fonte di ispirazione). Un viaggio sensoriale ed esistenziale, dunque, che spinge ad abbandonare la perfezione del pensiero, a inebriarsi, a riscoprire una percezione più naturale e meno indotta del mondo.

Foto di scena ©Simone Telari

Un lavoro concettualmente assai interessante, che mostra grande cura per il dettaglio e azzarda curiose miscele tra arte e artigianato, cultura e costume, alto e basso; tuttavia l’ambizione del progetto risente, paradossalmente, di una certa modestia, Sogno DìVino, cioè, propone una lettura inaspettata ed originale di un testo impossibile come quello di Strindberg, ma poi non ne prende possesso, quasi gettasse un seme raro in platea e non avesse la premura di coltivarlo, lasciando infine lo spettatore solo a intuire e interagire di sua propria (ed eventuale) iniziativa.

Foto di scena ©Simone Telari

La serata di venerdì 29 poi è proseguita con SocialMente dei milanesi Frigoproduzioni (che si sono guadagnati un posto nel cartellone della prossima stagione del teatro folignate). La platea dello Zut si allarga nuovamente e sul palco compare una strana coppia: occhiaie lunghe, corpo abbandonato, sguardo inebetito, un ragazzo e una ragazza siedono inerti di fronte a un televisore in proscenio che nel completo buio incornicia sul loro volto il ritratto mortifero dell’alienazione.

Foto di scena ©Simone Telari

Dominati totalmente da quell’allucinazione di “bellezza e desiderabilità” che pervade il mondo dei talent show, dei social netowrk o dei webporno, i due protagonisti si alterneranno in una serie di quadri dalle temperature opposte in cui il sogno di adesione al modello virtuale finirà ogni volta per precipitare nella misera realtà della propria indolenza.

Foto di scena ©Simone Telari

Si assiste così a lenti e vuoti dialoghi in costante differita tra apatia e remissivo silenzio; provini immaginari nella sordità di un paio di cuffie; e chat frustrate di fronte a un frigorifero color blu-facebook che metaforicamente sembra conservare tutti in perfetta apparenza mentre un vuoto gelo invade e marcisce l’esistenza.

Foto di scena ©Simone Telari

Ben allestito e recitato, SocialMente è un’arguta fotografia-spettacolo dei nostri tempi che tuttavia, nel suo sviluppo per accumulo, rischia di trasformarsi in un cosiddetto selfie, un’immagine scattata per essere diffusa ma che una volta condivisa e apprezzata dagli altri fatica a permanere.

Ciò che emerge infatti da questa prima giornata di spettacoli è propria una curiosa contraddizione: da un lato le compagnie dimostrano una particolare maturità nella cura dei dettagli, impreziosendo le messe in scena con idee brillanti o trovate originali; dall’altra, però, sembra mancare loro la consapevolezza della propria azione sociale, di ciò che accade ovvero appena la rappresentazione lascia il luogo del palco e raggiunge i singoli spettatori facendo scattare pensieri, associazioni mentali e perciò riverberi politico-culturali. Un fenomeno che in questi due giorni non rimarrà isolato e che, anziché essere sbrigativamente stigmatizzato, crediamo valga la pena di essere indagato, perché forse emblematico della sindrome da iperspecializzazione settoriale dei nostri tempi. Insomma, il teatro è solo creazione artistica oppure qualcosa di più?

ZUT, Foligno – 29 maggio 2015

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