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Strabismi Festival. L’orizzonte della visione

Passeggiando per Foligno si scorgono insolite contaminazioni. A un primo sguardo prevale l’atmosfera rilassata dei vicoli in pietra, dei portali in legno, delle chiese in mattoni a fasce dicrome, ma spingendosi oltre quell’intatto clima medioevale da sventolanti bandiere rionali e giostre di cavalieri si scopre che le mura rosee della città accolgono impreviste tracce di contemporaneità. La più clamorosa delle quali, probabilmente, è la Calamita Cosmica di Gino De Dominicis: uno scheletro monumentale, dal naso a becco di corvo, che giace enigmaticamente prono nella chiesa sconsacrata della Santissima Trinità in Annunziata. Proprio come quell’asta appuntita che preme e gravita sulle falangi ossee della scultura, il tempo in questa città si lascia magnetizzare, orientandosi verso una fusione di passato e presente in cui le varie forme d’arte trovano un insperato dialogo. Quanto e come questo sostrato influisca sulla vita dei suoi abitanti lo si può giudicare forse soltanto nel lungo periodo, ma, visto da fuori, parrebbe suggerire che il dibattito culturale sulla contemporaneità non possa proprio essere ridotto a globalizzazione contro autarchia, Troika contro P.I.G.S., mercato contro indipendenza. La complessità c’è e va tutelata: la ventilata democrazia non può ridursi a un’operazione di semplificazione il cui risultato comporta la soppressione delle varianti.

Gino De Dominicis Calamita Cosmica

Ritornando sui passi di Strabismi Festival, a questo proposito, vale la pena soffermarsi su un piccolo codicillo del bando, alla voce “Oneri e informazioni”, giacché spesso le sorprese si nascondono dove uno meno se le aspetta. Testualmente: “Le compagnie dovranno garantire la completa disponibilità nei giorni del Festival […] compresa la visione di tutti i lavori“. Ecco che ritorna allora il tema della contaminazione: si porta in scena il proprio spettacolo, ci si confronta con un nuovo pubblico, si concorre per una data in stagione, ma al tempo stesso si dialoga con gli altri artisti, si commenta e si ascolta, si mangia assieme e ci si osserva a vicenda; insomma, ci si mette in discussione. Un festival, dunque, che punta le poche risorse a propria disposizione non tanto (o non solo) sulla proposta artistica bensì sull’incontro degli artisti, tentando di perseguire, per l’appunto, un utile e stimolante strabismo culturale.

La giornata di sabato 30 è cominciata allo Spazio ZUT con Labbra blu di 8Root. Già finalista del Premio Dante Cappelletti 2011 (ora ampiamente rivisitato), il lavoro di Adriano Mainolfi è probabilmente quello più maturo e coeso dell’intera rassegna. Il palco si fa luogo del dolore e del ricordo, uno spazio intimo, interiore, psicologico, in cui si aggira fragilissimo un uomo che è madre e figlio (non troppo lontano da Ella di Achternbusch).

Foto di scena ©Simone Telari

Sulla scena – contrassegnata da lettere e cosparsa da teli di plastica, come fossero indizi e resti di un delitto – si intravedono le tappe di questo percorso mentale: un’ umanissima via crucis a ritroso che poco a poco condurrà allo svelamento di un passato segnato dalla privazione, dalla violenza, dall’abbandono.

Foto di scena ©Simone Telari

Ad attivare i ricordi giungono filastrocche, versi di Shakespeare, canzoni di musica leggera; attraverso una totale stratificazione di registri (che a volte ricorda il Delbono di un tempo), voci e luci si trasformano così in intermittenze ominose di verità. L’osmosi con lo spettacolo, tuttavia, è limitata da un certo eccesso di ermetismo: il pubblico coglie i segni, ne rimane colpito, ma fatica a coglierne la successione, anche solo a distinguere l’oggetto testimone dall’oggetto arredo; così, una volta uscito da teatro, continua a rimanere affascinato ma prova la sensazione di chi è stato escluso da una storia.

Di segno completamente opposto, invece, è il secondo spettacolo della serata. La Ribalta Teatro, infatti, porta in scena nientemeno che la vera storia della resurrezione di Cristo.

Foto di scena ©Simone Telari

Con tipica verve toscana e movenze simil-clownesche, i cantastorie Tito e Dodo vestono i panni di due mercenari che nel lontano 33, o giù di lì, furono ingaggiati da un’organizzazione segreta cospirazionista per trafugare il corpo del martire più famoso della storia. Peccato però che una volta giunti al sepolcro – il corpo del nazareno non ci sia!

Foto di scena ©Simone Telari

Attingendo a piene mani dal repertorio comico, la coppia propone divertenti giochi di equivoci, ripetizioni, buffonerie circensi; ma forse il momento più esilarante è la proiezione di un immaginario tg illo tempore in cui si dà notizia della scomparsa di Gesù con tanto di inviato sul posto. Godibile e misurato, forse ciò che manca a In religioso silenzio è proprio un po’ di satireggiante malizia à la Mel Brooks di The Producers; dopotutto, uno spettacolo comico a tema religioso si presta sempre all’irriverenza.

A chiudere la rassegna, infine, è la fulginate TILT, l’altra compagnia ideatrice del festival che insieme a Giardino delle Utopie ha costituito il Collettivo Strabismi. Briciole si ispira alla drammatica vicenda del mostro di Cleveland, un uomo che per quasi dieci anni sequestrò, picchiò e violentò ripetutamente tre ragazze. Lo spettacolo si sofferma, però, su una soltanto della vittime, presentando il terribile fatto di cronaca come una fiaba nera, in cui la spensieratezza iniziale della famiglia cederà il passo all’orrore della realtà.

Foto di scena ©Simone Telari

Stavolta la verità affiora attraverso un espediente tipicamente cinematografico; come in Rashōmon, infatti, si assiste prima all’edulcorata versione del padre (il mostro) che ricostruisce la sua violenta follia come fosse una storia d’amore; poi alla versione innocente della bambina (nata dallo stupro) che, data l’ambiguità infantile nell’interpretare i fatti, comincia a instillare i primi sospetti; infine alla versione della madre (la ragazza rapita), con tutto il suo carico di dolore, di rabbia, di impotenza.

Foto di scena ©Simone Telari

Se l’idea strutturale è sicuramente efficace, riuscendo ad avvicinare al cuore della vicenda senza lasciarne presagire l’evoluzione, anzi, operando un intelligente ribaltamento di empatie; nella sua interezza, invece, lo spettacolo si avvita più di una volta in lungaggini che rallentano il ritmo e inevitabilmente si fanno didascaliche: molto probabilmente dimezzandone la durata Briciole non solo guadagnerebbe di mordente, ma vedrebbe maggiormente valorizzata l’interessante impostazione drammaturgica.

Ora che il festival si è concluso e, pur tra qualche incertezza programmatica, la sua fase di test può dirsi superata, bisognerà cominciare a ragionare in merito alla direzione che si vuole dare a questo esperimento. Perché, è innegabile, di festival comunque ce ne sono molti, il rischio della deriva è sempre alto. Se per il momento le premesse lasciano ben sperare, prima che la rassegna raddoppi la sua offerta un nodo ci sembra vada sciolto: il ruolo del collettivo Strabismi. L’entusiasmo e l’onestà mostrati dalle due compagnie non sono in discussione, però gestire un festival e prendervi parte rischia di diventare una trappola.

Due possibili scenari: fare un passo indietro e concentrarsi sull’organizzazione, perseguendo la strada di un progetto “dal basso”, felicemente artigianale, che insegua strutturalmente quell’idea di creare una Avignone a Foligno; oppure, considerando che il mecenatismo comunitario del Collettivo e l’esposizione reciproca degli artisti suscita curiosità, si potrebbe allora pensare, da un lato, ad allestire spettacoli non propri (magari creare una rielaborazione di quelli altrui, una sorta di caleidoscopio “strabico” di varianti), dall’altro, ad avvalersi di un direttore artistico di esperienza, una sorta di padre putativo di eccellenza che affianchi i giovani organizzatori nello sviluppo del progetto agendo insomma da mediatore politico-culturale. Perché d’altronde, come insegnano le tracce storiche stesse della città, è proprio dalla contaminazione che nascono le opere migliori.

Zut, Foligno (PG) – 30 maggio 2015

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