La sedicenne Jesse (Elle Fanning), da poco arrivata a Los Angeles nella speranza di sfondare nel mondo della moda, sembra così confusa dal nuovo ambiente da non accorgersi inizialmente dell’atmosfera sinistra che la circonda. L’aura pura del suo splendore suscita l’invidia di molte modelle, in particolare Sarah (Abbey Lee) Jan (Christina Hendricks) e Gigi (Bella Heathcote): l’incantevole fascino di questa sorta di inaspettato angelo dalle sembianze umane spicca fra tutte queste ragazze, bellezze ormai mortificate dalle regole ferree della loro professione, sporcate alla radice da un incessante, demoniaco livore.
In questo scenario di marcescente glamour dove, per volere del regista, gli uomini rivestono un ruolo assolutamente secondario (compreso un viscido Keanu Reeves nei panni del portiere del fatiscente motel in cui soggiorna Jesse) fra le pochissime persone che non sembrano avere cattive intenzioni nei confronti della protagonista vi è l’ambigua truccatrice Ruby (Jena Malone). La donna, tuttavia, le dedica delle attenzioni morbose che fanno intuire un vorace desiderio di possesso: la candida, ingenua bellezza di Jesse costituisce del resto una preda perfetta agli occhi di un universo così torbidamente famelico.
Refn rappresenta l’intossicante stordimento di questo mondo “da sogno” con raro talento visionario, concentrandosi perlopiù sugli interni – come una discoteca invasa da musiche assordanti e gli studi in cui lavorano le ragazze – che divengono luoghi ideali per dare il via a sfoghi psichedelici vicini alla videoarte di Matthew Barney o Bill Viola e ai momenti più allucinati di Suspiria. Non è un caso se citiamo il capolavoro di Argento: come dimostra la quantitâ non indifferente di sangue che si impone nella parte finale del film, The Neon Demon è – anche – un horror, seppur assolutamente sui generis.
Nicolas Winding Refn consapevole delle proprie risorse, sempre più desideroso di sperimentare e allontanarsi dalle pur memorabili atmosfere di quel Drive che lo aveva reso noto al pubblico, si dedica infatti in maniera quasi maniacale e sorprendente alla cura dell’immagine che sfiora in più occasioni l’astrattismo.
Refn riprende i corpi delle donne in modo tale da farli apparire privi di “personalità” e reale spessore, come fossero robot ai quali sia stata data temporaneamente vita, evocando così i possibili “effetti collaterali” di spersonalizzazione e alienazione a cui la professione di fotomodella può portare. Con la parziale eccezione di Jesse, il regista utilizza le loro sagome come superfici con cui decorare l’immagine in maniera abbacinante per provare a spingere la Settima Arte in territori ancora poco esplorati.
Che piaccia o meno, quella di Refn è infatti un’idea di Visione Pura che raramente si ha la fortuna di incontrare nel cinema contemporaneo.