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Piccole donne

Dopo il folgorante Lady Bird, Greta Gerwig mette a segno un altro colpo, mostrandosi originale e autoriale anche al cospetto di un soggetto “classico” e rodato nei suoi adattamenti. 

Con la regia di Greta Gerwig, Piccole donne, celebre romanzo di Louisa May Alcott, è arrivato alla sesta trasposizione sul grande schermo. Giusto per ricordare: dopo i primi due adattamenti in film muti nel 1917 e nel 1918, si sono succeduti nel 1933 Piccole donne di George Cukor con Katharine Hepburn nei panni di Jo March e nel 1949 la versione di Mervyn LeRoy con Elizabeth Taylor a interpretare Amy March. Risale invece al 1994 l’adattamento cinematografico più recente, con una donna alla regia, l’australiana Gillian Armstrong, e i giovani Winona Ryder e Christian Bale nei ruoli di Jo e Laurie. Dati questi importanti precedenti, il banco di prova per la Gerwig non era certo semplice. La regista californiana, inoltre, ha iniziato le riprese reduce dal successo del suo Lady Bird, pellicola a tinte autobiografiche e soprattutto con una sceneggiatura interamente e laboriosamente scritta da lei. A stretto giro, dall’essere completamente libera di scrivere è passata a doversi adattare a delle pagine già scritte e a un soggetto già dato.

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Dalle prime scene, si capisce tuttavia che tale passaggio sembra essere stato indolore: Gerwig ha infatti saputo ritagliarsi con equilibrio e con scelte oculate un suo spazio di libertà. E in questo ha certo giocato a favore la decisione di lavorare con gli stessi protagonisti di Lady Bird, Saoirse Ronan e Timothée Chalamet, i “nuovi” Jo e Laurie. Piccole donne targato Gerwig non si attiene alla cronologia del libro; lo spettatore assiste invece ad un continuo contrappunto tra il passato e il presente delle sorelle March, talvolta – va ammesso – un po’ confusionario e forse di ostacolo nel cogliere, in tutte le sfaccettature, le diverse personalità delle giovani. Al tempo stesso però appare chiaro che solo lavorando su un loro tempo di maturazione diverso rispetto a quello del libro la Gerwig ha potuto fare suo il film e attualizzarne la cifra femminile, con discrezione e senza forzature.

Saoirse Ronan and Timothée Chalamet in Greta Gerwig' LITTLE WOMEN.

Il film inizia e si chiude con una matura Jo March, prima a confronto con uno scettico editore e poi alle prese con i diritti d’autore del suo Little Women; nel mezzo c’è un significativo scontro tra lei e il professor Bhaer (Louis Garrel) assai ‘critico’ sulla sua scrittura, uno scontro sul quale è più che lecito chiedersi se non ci sia una nota autobiografica da parte della Gerwig, compagna di Noah Baumbach e sua collega in più film. La freschezza e la forza interpretativa della Ronan concorrono a rendere le riflessioni di Jo immediatamente contemporanee, senza bisogno di strizzare l’occhio all’attualità della Hollywood del metoo.

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Oltre alla Ronan, anche il resto del cast fa la sua parte: l’eterna Meryl Streep sostiene la parte della severa zia, la rivitalizzata Laura Dern è efficace nell’interpretare la rassicurante figura materna, Florence Pugh con i suoi lineamenti marcati si cala perfettamente nella parte di Amy, mentre alla nostalgica bellezza di Eliza Scanlen (già apprezzata in un ruolo legato alla malattia nel film Babyteeth) è stato affidato il ruolo di Beth. E proprio la triste morte di Beth è la parte maggiormente favorita dal contrappunto passato/presente messo in atto dalla Gerwig: è quel doloroso momento a far convergere le due linee temporali in un unicum decisivo per la crescita delle giovani. La sorella maggiore, Meg è interpretata da un’incerta Emma Watson, forse l’anello debole del gruppo. Le figure maschili sono poco ingombranti e sempre moderate; unica eccezione è ovviamente Laurie, interpretato da uno Chalamet sempre più convincente, sulla cui esile e scanzonata fisicità la regia si sofferma spesso con una punta di divertimento.

 

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