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Peninsula

Il sequel di Train to Busan segna il ritorno dei personaggi nella penisola coreana, terra presa ormai d'assalto da infetti e gruppi criminali

Stuzzica sempre quando un tema horror, nel comporre la propria saga con sequel e prequel, esplora nuovi territori e si collega all’attualità. Caposaldo di questo trend sono i morti viventi, grazie ai quali George Romero nei diversi episodi successivi si addentra in implicazioni sociopolitiche di volta in volta al passo coi tempi (Diary of the Dead aggiorna il discorso al tempo di smartphone e social). Ci ha pensato di recente anche la premiata ditta Jason Blum & James DeMonaco che, dopo aver fatto breccia con La Notte del Giudizio, sviscera il fenomeno dello “sfogo” in maniera più analitica in Anarchia e lo piega a perverse esigenze politiche in Election Year.

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In maniera simile, Yeon Sang-ho, prolifico autore sud coreano, nonostante in Italia non abbia raggiunto il successo di alcuni connazionali, si cimenta con un cambio di approccio. Per Peninsula, sequel di Train to Busan, decide di passare dal racconto di un fatto (l’epidemia e la fuga) alle sue conseguenze sulla natura umana. Nel nuovo capitolo, un gruppo di sopravvissuti, trovato rifugio a Hong Kong, decide di tornare in Corea del Sud (la penisola appunto) per recuperare un carico di denaro. Ma la zona è ormai terra di infetti e gruppi criminali che nella totale anarchia si divertono a rapire umani sani e sottoporli a brutali combattimenti con gli infetti stessi. Sia il carico che i protagonisti finiranno nelle mani sbagliate, ma grazie all’aiuto di una donna, le due figlie e il padre faranno di tutto per sfuggire dalle grinfie dei criminali e dalla penisola.

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L’intento di Sang-ho è di rincarare la dose rispetto a quanto il già valido precedente episodio offriva: da un lato, affianca al survival horror, molte scene di azione fra sparatorie ed inseguimenti (girate peraltro in maniera notevole), dall’altro indaga sul degrado della morale umana in un contesto post-apocalittico e privo di regole sociali. La guerra fra superstiti per il potere assoluto anziché l’aiuto reciproco e la conseguente confusione su chi sia il vero nemico da combattere (i criminali o gli infetti) è sempre degno di considerazione, ma le dieci stagioni della serie AMC The Walking Dead hanno già capillarmente reso nota questa distopia. Il parallelismo sugli zombie come uomini inebetiti dal capitalismo avviato dai film di Romero viene qui aggiornato al nuovo millennio: gli zombie di Yeon Sang-ho corrono veloci e impazziti e agiscono attraverso la luce e il suono, senza i quali rimangono disorientati. Come a dire che il nuovo male è la velocità delle nostre vite e che dipendiamo dai bagliori e i rumori delle città e delle tecnologie.

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Quello che però sorprende della “saga di Busan” è una spiccata sensibilità per i personaggi e le relazioni piuttosto anomale per il cinema horror mainstream; il finale toccante dimostra che per Sang-ho non vi è alcuna esigenza di racchiudere il film horror in schemi o stilemi, allineandosi a quell’eterogeneità comune al nuovo cinema coreano. Nonostante abbia perso la genuinità del primo episodio, questo sequel offre comunque alcuni spunti per apprezzare un modo nuovo e fresco di fare cinema di genere.

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