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Notizie dal mondo

Greengrass lascia da parte l'azione per confrontarsi con un western riflessivo che richiama uno scenario politico ed ideologico estremamente attuale

A distanza di sette anni da Captain Phillips, Tom Hanks torna a lavorare con Paul Greengrass, nuovamente nelle vesti di capitano. In Notizie dal mondo, distribuito da Netflix e tratto dall’omonimo romanzo di Paulette Jiles, è Captain Jefferson Kyle Kidd, un ex soldato confederato che, spostandosi da una città all’altra negli Stati Uniti del 1870, legge nei giornali le ultime notizie per le persone analfabete e curiose di ciò che accade in giro per il mondo. Muovendosi da Wichita Falls, nel Texas, lungo la strada incontra una bambina (Helena Zengel, candidata al Golden Globe come miglior attrice non protagonista) sola e spaventata, che parla la lingua kiowa. È Johanna Leonberger, pochi anni prima strappata ai genitori, coloni provenienti dalla Germania e uccisi dai Kiowa in una delle tante massacranti lotte tra colonizzatori e nativi americani. Presa e allevata dalla tribù, Johanna, che ha cambiato nome in Cicala, si ritrova ancora una volta orfana: anche la sua famiglia indiana è stata sterminata, ma da coloni bianchi. Le rimangono solo alcuni zii tedeschi in California ai quali Jefferson decide di riportarla, nonostante il viaggio sia lungo e pericoloso, attraverso terre ancora lambite dalla guerra di secessione.

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Date le premesse narrative western, ci si potrebbe aspettare un film d’azione – punto di forza di Greengrass; basti pensare alla trilogia di Jason Bourne –, un viaggio movimentato dei due protagonisti tra incontri rischiosi e stravolgimenti di ogni tipo. Notizie dal mondo invece non offre nulla del genere: alcuni momenti di azione sono presenti – in particolare lo scontro con tre criminali pronti a rapire, per soldi, Johanna – ma appare fin da subito chiaro come la regia voglia confrontarsi apertamente con una dimensione riflessiva, dove le immagini quasi si appoggiano ai pensieri dei protagonisti e a contrapposizioni simboliche disseminate nei loro dialoghi e nelle loro scelte.

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In particolare, la regia insiste su un gioco speculare tra circolarità e linearità: Jefferson spiega a Johanna come la cultura di conquista americana insegni a muoversi su una linea retta in continuo avanzamento, imponendo di dimenticare ciò che ci si lascia alle spalle; Johanna invece spiega come per la civiltà kiowa tutto sia unito e circolare, in una complementarità tra terra e cielo, passato e presente. La straight line di cui parla Jefferson, e che chiunque abbia viaggiato negli Stati Uniti riconosce, ci viene mostrata con le serie di strade che solcano il paesaggio – fissato con inquadrature che facilmente richiamano alla memoria il capolavoro fordiano Sentieri Selvaggi – e un giorno collegheranno le grandi città americane, mentre la circolarità risalta nella forza caotica dei nativi indiani in fuga, avvolti nel turbinio del vento e della polvere, impercettibili allo sguardo.

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Ma c’è anche l’ambiguità, molto attuale, tra notizie e storie: in una delle tappe del viaggio, Jefferson, ex veterano ma anche ex tipografo, convinto della forza delle parole e del valore delle vicende esistenziali, respinge l’uso della notizia creata ad hoc soltanto per giustificare e legittimare un potere eversivo e sceglie invece la via di un racconto che dia a chi lo ascolta anche opportunità di conoscenza e di consapevolezza alternative. La regia, sovraccaricata da riflessioni così complesse e scottanti (soprattutto nella prospettiva ideologica americana), rimane a tratti priva di incisività e impigliata in qualche incertezza. Sono difetti che comunque non pregiudicano il risultato d’insieme: il film coglie nel segno, restituendo il senso profondo di una storia molteplice e variegata e valorizzando lingue e diversità culturali nello scenario di una umanità indagata nelle sue luci e ombre.

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