badluckbanging

Berlino 71

Si chiude la 71esima edizione del Festival di Berlino con l'assegnazione dell'Orso d'Oro a Radu Jude per Bad Luck Banging or Loony Porn

L’Orso d’oro di Berlino 71 è stato assegnato al regista romeno Radu Jude: pregio principale del suo film Bad Luck Banging or Loony Porn, secondo la giuria, è quello di aver fissato sullo schermo, con toni provocatori, lo spirito dei nostri tempi. In effetti, i primi minuti della pellicola danno subito la sensazione, poi confermata, di un film che pensa il presente e soprattutto nel presente. Ma, per sgombrare subito il campo da ogni equivoco, questo non dipende solo dal fatto che il film sia stato girato durante la seconda ondata pandemica e che quindi compaiano mascherine, lamentele sul mancato distanziamento sociale e il grido “dittatura sanitaria” con annessi gli immancabili riferimenti cospirazionisti a Soros e Gates. E non dipende nemmeno solo dal fatto che la protagonista (Katia Pascariu) sia un’insegnante vittima di revenge porn, messa alla gogna da quasi tutti i genitori dei suoi alunni, in una vicenda simile a quella accaduta di recente nel nostro paese. Il film pensa il presente anzitutto perché maneggia questo contesto, questa attualità non come tema del quale parlare e sul quale apporre una determinata visione interpretativa su limiti e disuguaglianze della nostra società (chi di noi non ha sentito qualche lectio magistralis sul nostro tempo pandemico con uno sfoggio di più saperi per cercare di definirlo?). Il presente semplicemente è e va mostrato in questo suo essere, nella sua anarchica libertà intrisa di contraddizioni, reazioni, aggressioni, ironia e banalità. La regia di Jude appare mossa quasi da un intento situazionista: la protagonista vaga per la città, per strade dove la vita moderna scorre nelle sue alchimie caotiche, tra i loghi delle catene industriali, nelle file alla cassa dei supermercati o nella riunione a scuola con i genitori preoccupati dall’oscenità del video porno che dà inizio al film. Questo movimento della regia apre spazi di riflessione imprevedibili e consegnati allo spettatore, libero di farne quello che preferisce: notarli, trattenerli, sottovalutarli. Nel mezzo del film si inserisce un glossario di disparati accadimenti storici e di lemmi quali “aborigeno” “cultura”, “pornografia” “riscaldamento globale”, dove Jude provoca apertamente, mettendo a nudo gli strati concettuali di cui essi si compongono. Non manca il lemma “cinema”, moderno scudo di Atena che può solo riflettere e non vedere l’orrore sottile e impalpabile, Medusa dei nostri tempi, che si annida nei gesti e nelle parole più comuni, più banali, più abusati: Jude con questo film lo imprime e lo consegna al futuro.

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L’impossibilità per il cinema di poter raffigurare il presente, di poter far vedere come si riesca a  vivere nell’indifferenza verso ciò che sta accadendo alla natura del mondo è affrontata anche da Alexandre Koberidze nel suo What Do We See When We Look at the Sky?, film meritatamente premiato dalla critica ma lasciato fuori dal palmarès. La storia, anzi fiaba, di un amore mancato tra due giovani tormentati da una maledizione che ne cambia l’aspetto fisico è l’originale spunto narrativo che il regista georgiano sceglie per sottolineare, quasi in modo nostalgico, la forza più ovvia ma per questo strana del cinema: scegliere soggetti, raccontare storie che sullo schermo, nella finzione cinematografica, possono restituire una parte perduta di noi. Un film profondo, di valore, da non perdere.

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Un pizzico di delusione invece arriva dall’atteso Petite maman di Céline Sciamma. Al centro non c’è più il tema della sessualità ma la relazione tra madre e figlia: la storia della piccola Nelly (Joséphine Sanz) che incontra la madre quando aveva la sua stessa età è ben supportata dalla regia della Sciamma, sempre potente nella sua semplicità disarmante. Eppure un focus così perfetto sul tema dell’infanzia, con un ardito escamotage anacronistico, rischia paradossalmente di essere il limite di questo film: il mondo adulto, lasciato volutamente sullo sfondo, rimane un punto oscuro che non permette allo spettatore di avvertire quel calore emotivo che invece affiora nel rapporto madre-figlia oggetto del film in concorso Memory box di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige, da questo punto di vista più riuscito.

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