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Cinema sotto la pergola

Nel corso degli anni il Cinema ha regalato storie e soprattutto immagini rimaste impresse nella mente dello spettatore. A volte la memoria fa brutti scherzi, certo, ma se spesso non è raro dimenticare le trame di svariati film, sembra difficile, invece, non ricordare alcune scene entrate di prepotenza nella storia della settima arte. Le doti attoriali degli interpreti e la maestria dei registi, però, sono solo due dei fattori essenziali affinché una scena possa divenire “indimenticabile”. Ha un notevole peso specifico, infatti, anche la scelta del luogo – o la composizione di quest’ultimo –, indispensabile per connotare un genere o esaltare le peculiarità di una determinata immagine filmica.

Gli esempi di certo non mancano. Basta pensare alla panchina situata di fronte al Queensboro Bridge, da cui i due protagonisti ammirano il panorama in Manhattan (id.,1979, Woody Allen); o le note della suadente Moon River che arrivano dalla finestra dell’appartamento di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany’s, 1961, Blake Edwards); o il volto in penombra di Marlon Brando nello studio di Villa Corleone nel Padrino (The Godfather, 1972, Francis Ford Coppola); o ancora, i bagni, luoghi designati a sancire, nel bene o nel male, i destini dei protagonisti di Pulp Fiction (id.,1994, Quentin Tarantino). Si potrebbe continuare ancora a lungo, molto a lungo. In tal senso, c’è una componente scenica che non di rado viene utilizzata nei momenti “chiave” di alcuni film: la pergola. Vediamone di evocarne alcune.

Manhattan, Woody Allen, 1979

Scandalo a Filadelfia (The Philadelphia Story, 1940, George Cukor)

I tre vertici della commedia americana dell’epoca – Katharine Hepburn, Cary Grant e James Stewart – in un film diretto da George Cukor, grande esponente di uno dei filoni più in voga nella Hollywood Classica: la commedia sofisticata. La pellicola è un classico del sotto-genere denominato comedy of remarriage, ossia dello sposarsi per la seconda volta con la stessa persona dopo aver divorziato. Capricciosa e viziata, Tracy (Hepburn) ottiene il divorzio da Dexter (Grant) e decide di sposare un self made man della nuova economia statunitense. Ma Dexter, ancora innamorato della sua ex, le mette alle calcagna il cronista mondano Connor (Stewart) per mandare all’aria le nuove nozze. La conclusione, ovviamente, avrà il suo lieto fine.

La scena madre è girata sotto il pergolato della lussuosa dimora dei genitori di Tracy. Qui, all’aria aperta ma ben coperta da una pergola che la protegge dai fastidiosi raggi solari mattutini – deleteri quando si passa la notte prima a bere champagne –, la protagonista ammette i propri errori e riaccende definitivamente la fiamma che animava il suo matrimonio. Forse nella storia del cinema nessuna pergola ha mai ospitato, sotto la propria struttura, tre attori di tale levatura. Tra i tre fu James Stewart ad aggiudicarsi l’Oscar, soffiandolo a rivali del calibro di Henry Fonda (Furore, John Ford), Laurence Olivier (Rebecca, la prima moglie, Alfred Hitchcock) e Charlie Chaplin (Il grande dittatore).

Scandalo a Filadelfia, George Cukor, 1940

Tutti insieme appassionatamente (The Sound of Music, 1965, Robert Wise)

Reduce dal successo di Mary Poppins (1964, Robert Stevenson), Julie Andrews torna a interpretare il ruolo di bambinaia canterina in questo musical divenuto vero e proprio cult nel suo genere. Ambientato negli Anni Trenta, Maria (Andrews) è un’orfana allevata in convento che viene mandata dalla sua madre superiore a svolgere il ruolo di governante nella casa del Comandante Georg Ritter von Trapp (Christopher Plummer). In breve tempo la protagonista conquista l’affetto dei numerosi figli – orfani di madre – del colonnello e diventa fondamentale quando la famiglia è costretta a fuggire dal paese conquistato dai nazisti.

La rigida educazione impartita ai propri figli dal colonello lascia presto il posto alla contagiosa spensieratezza che caratterizza l’animo della protagonista. Il cambio di rotta è scandito e immortalato dalla celebre corsa dell’allegra combriccola sotto la pergola arborea in una delle scampagnate clandestine organizzate dalla governante. Un passaggio che sancisce l’inversione dal clima austero d’inizio film a quello più sereno, sia pur con notevoli complicazioni, che caratterizza il seguito. Situata nei Mirabell Gardens di Salisburgo, la pergola è diventata – al pari del celebre gazebo presente nel film – meta turistica per i numerosi fan della pellicola.

Tutti insieme appassionatamente, Robert Wise, 1965

I ponti di Madison County (The Bridges of Madison County, 1995, Clint Eastwood)

Clint Eastwood è entrato nella storia del cinema attraversando le praterie del West, silenzioso cavaliere senza nome immortalato da Sergio Leone, e vestendo i panni del poliziotto tutto d’un pezzo Dirty Harry Callaghan, ma come regista ha firmato uno dei massimi capolavori del cinema romantico di tutti i tempi. I ponti di Madison County è la storia d’amore tra Francesca (Meryl Streep), casalinga dell’Iowa di origini italiane, e Robert (Clint Eastwood), fotografo in trasferta. Un amore brevissimo, solo quattro giorni di idillio la cui memoria riemergerà solo dopo la morte dei protagonisti.

La famiglia di Francesca, quarantacinquenne italiana, è via per qualche giorno, la donna è sola nella fattoria persa nelle campagne dell’Iowa. Mentre sbatte un tappeto affacciandosi dal pergolato di casa nota il furgone di uno sconosciuto. Alla sua porta si presenta Robert, fotografo del National Geographic in cerca dei famosi ponti coperti della zona. La pergola è casa, la sicurezza degli affetti famigliari, la cornice di un orizzonte sicuro. Accettando di accompagnare Robert aprirà il suo cuore a un amore inaspettato e sconvolgente, che le cambierà la vita. Ma i giorni insieme saranno custoditi nei ricordi perché Francesca, in una delle scene finali più famose della storia del cinema, sceglierà di restare a casa.  (Giacomo Lamborizio)

I ponti di Madison County, Clint Eastwood, 1995

Forrest Gump (id., 1994, Robert Zemeckis)

L’epica vita di Forrest Gump, straordinario eroe improbabile del cinema americano interpretato in maniera magistrale da Tom Hanks è stata uno dei più grandi successi del cinema mondiale negli anni Novanta. Sei Oscar nel 1995 e un biglietto di sola andata per l’immaginario collettivo per un film che ha fatto epoca. Grazie agli incredibili effetti speciali che fanno interagire Tom Hanks con Kennedy, Elvis, Nixon e John Lennon e a una serie di battute iconiche, la storia di Forrest Gump, giovane dell’Alabama con un ritardo cognitivo che incide inconsapevolmente su mezzo secolo di storia e costume americani, è ormai un monumento del cinema hollywoodiano.

Alabama, profondo sud degli Stati Uniti. La casa in cui cresce Forrest è un grande villa coloniale che la madre single e in difficoltà economica è costretta ad affittare agli inquilini più disparati. La casa con il suo ampio pergolato e il giardino è il cuore emotivo del film, l’oasi di tranquillità della difficile infanzia di Forrest e il porto sicuro a cui ritornerà alla fine della sua folle corsa attraverso vent’anni di storia americana. Nel finale del film incorniciata dalla pergola, bellissima nel suo vestito bianco, Jenny (Robin Wright), il grande amore inseguito per tutto il film, appare a Forrest pronta finalmente a diventare sua moglie (Giacomo Lamborizio)

Forrest Gump, Robert Zemeckis, 1994

La mia Africa (Out of Africa, 1985, Sydney Pollack)

Dopo Come eravamo (The Way We Were, 1973), Sidney Pollack torna al dramma sentimentale assegnando ancora una volta il ruolo di protagonista a Robert Redford, questa volta affiancato da Meryl Streep. Tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Karen Blixen, il film ripercorre la vita della scrittrice danese, dal suo matrimonio di convenienza con il cugino barone al tormentato e intenso soggiorno a Nairobi, dove si innamora di Denys, affascinante avventuriero inglese. Sullo sfondo di una terra primitiva e sconfinata, ha dunque luogo la turbolenta storia d’amore tra i due protagonisti di un film che si aggiudicò ben sette Premi Oscar.

L’anticonformista Denys si lascia ammaliare da Karen e, almeno inizialmente, dalle sue grandi doti oratorie. Ma la vera storia d’amore fiorisce e si dilata esponenzialmente durante le sempre più costanti visite dell’avventuriero nella dimora della scrittrice. All’ombra della pergola, che attenua il calore emanato dal cocente sole africano, i protagonisti imparano ad accettare la propria diversità – morale e caratteriale – e danno vita a una delle storie d’amore che, nonostante qualche cliché di troppo, ha affascinato intere generazioni e portato la pellicola a diventare uno dei più grandi classici del suo genere.

La mia Africa, Sydney Pollack, 1985

Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956, John Ford)

“Mi chiamo John Ford e faccio Western”. La celebre battuta andrebbe forse corretta in “mi chiamo John Ford e sono il Western”. Il leggendario artefice di molti dei massimi capolavori del western classico americano con Sentieri selvaggi firmò uno dei suoi film più controversi e, insieme, più grandi. è la storia di Ethan Edwards (John Wayne), reduce della guerra di Secessione che, tornato a casa dopo anni, vede la sua famiglia sterminata da una tribù Comanche e la nipote più piccola Debbie rapita. Ethan, con il figlioccio Marty, cavalcherà per anni in cerca di vendetta, fino a ritrovare la bambina ormai cresciuta (Nathalie Wood) e integrata nella tribù. Dovrà superare il suo odio razziale, la sua diffidenza, la sua chiusura per accettare di riportare a casa la ragazza.

Il dittico di inquadrature composto dalla scena iniziale e da quella finale di Sentieri selvaggi racchiude in maniera perfetta l’epica del West e insieme la necessità del suo superamento. Una porta si apre su un pergolato, affacciato sulla Monument Valley. Nella prima scena la famiglia assiste al ritorno di Ethan. Un cavaliere solitario, carico di tutta la polvere della frontiera, che varca la soglia di uno spazio privato, ritrova il calore del focolare, l’affetto della famiglia. Ma tutto è giocato sul contrasto e la violenza della guerra non tarderà a ripresentarsi sconvolgente alla porta degli Edwards. Ethan riprenderà la strada di polvere e sangue sulle tracce degli indiani che hanno spazzato via la sua famiglia. Una strada lunga anni che si concluderà di fronte a un’altro pergolato, a un altro spazio protetto, a un altro focolare. È la scena finale, la vendetta di Ethan si è compiuta, la piccola Debbie è tra le sue braccia. Incorniciato da una porta, la scenografica, leggendaria Monument Valley alle sue spalle, Ethan questa volta non varcherà la soglia. Ethan è il West, è la frontiera, la violenza e la vendetta. Tornerà sulla sua pista, da solo ancora una volta, lasciando una nuova America, migliore, crescere protetta dalla casa e da quel confine, che è storico e filosofico in un’unica scelta di scenografia, segnato dalla pergola. (Giacomo Lamborizio)

Sentieri selvaggi, John Ford, 1956

Articolo scritto in collaborazione con Gibus

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