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Fahrenheit 11/9

Più che un film contro Trump Moore ci ricorda l’importanza del contatto ravvicinato, del dialogo e dell'interazione, un messaggio per la mobilitazione collettiva, unica via al fine di comprendere le nostre problematiche sociali

Nel 1993 George W. Bush ha inaugurato un bellissimo esempio di urbanistica e di design cominciando la costruzione di barriere per dividere il Messico dagli Stati Uniti. Il progetto è stato accolto ancora meglio dai successivi presidenti, Bill Clinton e Barack Obama, per arrivare a Donald Trump che ha chiesto un finanziamento da 18 milioni di dollari per costruire un vero e proprio muro tra queste due fette d’America per impedire i flussi “migratori”. Oggi il muro misura circa 1200 km. La costruzione del muro è stato uno dei cavalli di battaglia usati dall’imprenditore Trump per favorirsi una fetta degli americani indottrinati, probabilmente quella stessa cerchia di detentori di armi da fuoco che vediamo apparire nel film. Uno storico intervistato verso la fine del film ci ricorda questo particolare, piuttosto che difendere i confini nazionali investendo in “sicurezza” sarebbe meglio difendere la libertà. Ecco, Fahrenheit 11/9, l’ultimo film di Michael Moore cerca di essere un grido (oramai quasi represso) di libertà, che potrebbe sembrare un grido “anarchico” ma che vuole in realtà mettere in discussione la falsa democrazia sostenuta oramai da un élite oligarchica. Quel famoso Impero Irresistibile che pur essendo per la maggioranza di sinistra (o almeno quasi, secondo Moore) non riesce a fare valere i principi della costituzione, perché determinato da un sistema di votazioni fortemente verticalizzato e da un confuso clima politico.

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Il film si apre con l’imbarazzata fila indiana della famiglia di Trump and Co. che si muove lenta sul palcoscenico, con la smorfia inebetita del nuovo presidente, quasi reticente a farsi avanti per un presunto inconscio senso di colpa che si manifesta nel suo impacciato modo di muoversi verso il pubblico. La vittoria di Hillary Clinton (che sarebbe divenuta il primo presidente donna degli Stati Uniti) era data 3 ad 1 ma qualcosa è andato storto, anche a causa di un sistema bipolare come quello americano dove la maggioranza di voti per il candidato premier non è garante di una vittoria assoluta, soprattutto se consideriamo che gli stati sono 50 e c’è una disproporzione  tra il numero di cittadini e il numero dei Grandi Elettori dei singoli stati (uno stato più piccolo con pochi cittadini può essere determinante per una vittoria assoluta!). Inoltre, questo sistema mette da parte figure emarginate, sfavorite da non immediate procedure di accesso al voto, e dall’esclusione di chi ha precedenti penali e interdizioni dai pubblici uffici. Le persone non idonee (che poi sono per la maggiore i poveri come gli ispanici e i neri) vengono esclusi. Inoltre nel film di Moore si vede come molti sostenitori del partito democratico comincino a disertare il voto dopo che il partito stesso ha truccato le primarie, che vedeva la lotta parallela tra la Clinton e Bernie Sanders; Insomma, per quanto Moore sottolinei la buona volontà di “sinistra” del popolo americano i candidati premier sono disposti a tutto (persino dentro il proprio partito!), cioè a mentire, a truccare le votazioni, a reprimere una fetta di popolazione, a falsificare (le celebri fake news di Trump), a disinteressarsi (Obama che occupa la città di Flint con esercitazioni dell’esercito americano, dopo essere stato chiamato a causa dei gravi problemi idrici della città; la Clinton che piuttosto che fare campagna elettorale gira il mondo per raccogliere fondi e accettare soldi dalle banche, etc.). L’immagine che Moore ci offre di questi politici (escluso Sanders) è quella di abili banchieri (Obama che riceve soldi a palate dalla Goldman Sachs), guerrafondai, bugiardi, moralmente compromessi, volgari (Trump che vuole trombarsi la figlia), fuori luogo (Obama che beve l’acqua intossicata di Flint facendo battute, quando sono morte persone per inquinamento da piombo).

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Tutti pronti al “compromesso”, qualunque esso sia. La democrazia è diventata una pura formalità? Sembrerebbe veramente di si, e un discorso parallelo può essere fatto anche per il nostro paese dove viene continuamente legittimata – tramite l’idiozia pubblica e social – lo screditamento del sistema giudiziario, della stampa, degli intellettuali, del popolo. Questi cosiddetti politici hanno accettato talmente tanti “compromessi” (come ci tiene a sottolineare con un montaggio ellittico Moore) da non avere più un’idea morale, soprattutto se consideriamo che la politica è fortemente intrisa di valori morali. Moore ci mostra come quest’idea di politica non può che essere rimpiazzata dal popolo (gli adolescenti che protestano contro il possedimento di armi), nuovi candidati (giovani, laureati e che provengono da un ambiente modesto, che conoscono il lavoro dal “basso”, oppure figure  come camionisti, camerieri, operai, etc.). C’è da notare una cosa; Moore sembra voler criticare un certo tipo di mentalità repubblicana mostrando come negli ultimi trent’anni abbiano quasi sempre vinto i democratici. Già, ma cosa hanno davvero migliorato i democratici? Non sarebbe stata Hillary Clinton una guerrafondaia? Non lo è stato Obama? Cosa hanno fatto affinché Trump non divenisse presidente?

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Donald Trump è il frutto di un lungo processo di maturazione, che ha portato a governare il mondo un misogino apertamente razzista, dopo il primo presidente afroamericano della storia, Barack Obama!  Le vantaggiose élite minoritarie che hanno difeso i loro beni privati, i lavoratori statali che hanno ampiamente sfruttato i benefici dei sindacati senza rinunciare a privilegi ad hoc (e Moore critica quei sindacati che non incentivano le proteste quando necessarie), gli imprenditori di successo che hanno guadagnato aggirando i controlli dello Stato (che oramai controlla solo più il “ceto medio” e i poveri, mentre lascia che i ricchi investano altrove) etc. Tutti questi sono i responsabili. Michael Moore ci ricorda quindi di dover dialogare con gli emarginati, senza aver la pretesa di risolvere i loro problemi se nemmeno ci mettiamo nella posizione di ascoltarli (che è il modus operandi dei nostri politici, che risolvono i problemi cambiando gli algoritmi del mercato, divenendo meri tecnocrati). Moore ci ricorda l’importanza del contatto ravvicinato, del dialogo faccia a faccia, andando oltre la mera funzione nostalgica, perché solo in tal modo si possono comprendere le problematiche dei cittadini (l’acqua inquinata di Flint, la città più povera del Michigan, gli insegnanti precari, gli studenti terrorizzati dalle sparatorie nei college); questo avvicinamento ha delle conseguenze fondamentali. Il film di Moore si chiude in modo veramente drammatico (le urla in sottofondo) e il volto in primissimo piano della studentessa “ribelle” (gay skinhead!) che nomina uno ad uno i nomi degli studenti uccisi dalle sparatorie nei college. La perdita di contatto visivo, forse più che ogni altra cosa è il problema più grosso che abbiamo oggi. Moore ci ricorda questo, che la democrazia è sempre un traguardo e ancora non l’abbiamo raggiunto.

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