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Crazy Rich Asians

Un perfetto esempio del nuovo American Dream 2.0, aggiornato alla luce di un ripensamento culturale tanto sfacciato quanto intangibile.

Uscita a metà agosto in quasi tutto il mondo, Crazy Rich Asians – in Italia conosciuta con il titolo più politicamente corretto Crazy & Richnon può essere considerata una semplice commedia romantica dalle sfumature rosa, ma deve anzi essere concepita come il prodotto più logico ed inevitabile di due grandi eventi che hanno mutato incontrovertibilmente le logiche cinematografiche, sociali e politiche dell’Occidente: si sta parlando, da un lato, della controversa presidenza Trump iniziata nel gennaio 2017, e, dall’altro, del movimento tardo-femminista MeToo, nato a seguito del noto scandalo Weinstein. Prima di addentrarci nel merito della questione, è doveroso fornire un paio di informazioni sul lungometraggio che, almeno ad un primo sguardo, ripropone tutti i caratteri tipici delle pellicole a target femminile degli ultimi decenni. Tratto dall’omonimo romanzo di Kevin Kwan, Crazy Rich Asians si incentra sulle disavventure di Rachel Chu (Constance Wu), una newyorkese di origine cinese che decide di accompagnare il fidanzato Nick (Henry Golding) a Singapore, richiamato in terra natia per essere il testimone di nozze del suo migliore amico. Giunta in Asia, la sprovveduta cino-americana si rende conto che il suo consorte non è un ragazzo comune come aveva fino a quel momento pensato, ma è il primogenito della più ricca famiglia dell’estremo oriente. Proprio per questo motivo, il soggiorno di Rachel si rivela essere poco a poco un vero e proprio incubo, tanto che non mancheranno scontri con ex fidanzate gelose, con improbabili parenti serpenti e soprattutto con la tirannica e dispotica madre.

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Se fin qui nulla sembra diverso da ciò a cui il cinema hollywoodiano ci ha abituato, due sono gli elementi di novità che, come accennato, possono essere visti come direttamente connessi agli eventi che hanno incontrovertibilmente mutato la realtà contemporanea. Il primo è sicuramente quello maggiormente predominante e riguarda la rappresentazione della sub-cultura cinese, fino a questo momento scarsamente considerata dal cinema statunitense o comunque occidentale. In tal senso, il film si focalizza su un cast di origine totalmente asiatica, rovesciando formule tipiche dei white movies – se così è possibile definirli – in un contesto sfacciatamente orientalizzato. Questa sfumatura di confini traspare anzitutto nella trama, che attinge a piene mani da pellicole quali Quel mostro di suocera o Il diavolo veste Prada e ancor più da prodotti medio-bassi di natura seriale e televisiva; allo stesso modo, la colonna sonora ripensa grandi classici del pop occidentale come Material Girl di Madonna e Yellow dei Coldplay, traducendoli e mutandoli in inni di un mondo lontano sempre più americanizzato.

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Sotto questa luce, Crazy Rich Asians sembra essere la conseguenza diretta di una nuova forma di collettivismo anti-gerarchico e paritario, che investe almeno all’apparenza nell’inclusione di differenti culture. Tale velleitaria realtà, ideologicamente necessaria più che tangibilmente esperibile, è chiaramente il contro-altare artistico della politica di Donald Trump, il quale ha più volte fatto della disuguaglianza etnica un proprio cavallo di battaglia. Crazy Rich Asians, ma con preamboli e richiami diversi anche il recente cine-comic Marvel Black Panther, è quindi anzitutto figlio indesiderato della politica trumpiana, fautrice di un esclusivismo coscientemente e geograficamente imperante. La seconda novità, connessa alla prima ma ugualmente degna di un piccolo spazio, riguarda invece la rappresentazione del soggetto femminile. In concomitanza con l’ascesa e l’ormai più che probabile flessione del movimento MeToo, nuovi femminismi plurali sembrano trovare un terreno sempre più fertile nel cinema, ricco anche in questo caso di apparente integrazione. La protagonista è il prototipo di una donna indipendente, capace di apprezzare le gioie della vita amorosa e di concretizzarsi lavorativamente. In tal senso, la consapevolezza individuale del femminismo si intreccia con la nobilitazione contemporanea di scelte-altre, che maturano poi alla luce di una sisterhood micro-culturale fino ad ora mancante. Rachel è pertanto il modello di una nuova femminilità cinematografica, capace di intrecciare nelle sue azioni una doppia anima di cinese e di americana, di lavoratrice e di consorte innamorata, di ragazza sensibile e di instancabile combattente.

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Chiaramente, come spesso capita a Hollywood, non è però tutto oro quello che luccica. Sia Crazy Rich Asians, sia il già nominato Black Panther altro non sono che l’ennesimo specchio distorto di una realtà ugualmente informe. Così come il cinema americano insegna fin dai tempi di Roosevelt, l’apparenza è più importante della sostanza e il sogno è più importante della realtà. Andando oltre il collettivismo (comunque velatamente segregativo) e il femminismo di facciata, Crazy Rich Asians è soprattutto il riflesso di quello che l’America non è, più che di quello che è: se da un lato la parità è ben lontana dalla politica di Trump, l’indipendenza femminile è ancora barcollante in una nazione notoriamente conservatrice, soprattutto nelle sue zone più povere. In attesa che l’annunciato secondo capitolo, Crazy Rich Asians è quindi un perfetto esempio del nuovo American Dream 2.0, aggiornato alla luce di un ripensamento culturale tanto sfacciato quanto intangibile.

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