Sono trascorsi cent’anni dalla carneficina della Grande Guerra. Un passato per noi remoto, fissato nella retorica dei libri di storia, delle fotografie, dei primi filmati girati sui campi. Parole e immagini che il tempo svuota, inesorabile, della sofferenza, delle sensazioni, dei pensieri che hanno seguito migliaia di uomini durante gli interminabili giorni del conflitto.
È racchiuso in una notte, Torneranno i prati, l’ultima poetica pellicola scritta e diretta da Ermanno Olmi. Con una macchina da presa che elimina tutto ciò che non dà emozione, lo spettatore si affianca alla truppa accampata sul fronte orientale, immersa nelle nevi degli Altipiani: condivide il tempo sospeso nel chiaro di luna, dove ogni cosa – persino un larice secco o il passaggio di un animale selvatico diventa magico, malinconico, e ogni suono si dilata, fondendosi con il silenzio e il terrore. Scopre lo spazio della desolata striscia sotterranea di legno, fango e freddo, e, accanto ai militari, ascolta il passare dei secondi, osserva l’immobilità della nebbia, conta i momenti di paura che separano il boato appena percepito da quello che verrà.
Ma non si tratta dell’ennesimo film di guerra: piuttosto della di-mostrazione del dolore della guerra. Ermanno Olmi, che dedica vita e arte all’assidua ricerca del senso dell’esistenza e della profondità emotiva dell’anima umana, scrive una poesia d’immagini che, lungi dall’essere mera commemorazione, vuole omaggiare, con intenso e sincero affetto, la memoria di coloro che – traditi e condotti alla morte – hanno risposto alla chiamata alle armi sacrificandosi in nome dell’amor patrio.
Nella stessa carezza registica equilibrato l’accostamento tra finzione dei primi piani e movimenti più sporchi e realistici da reportage il maestro bergamasco unisce al lancinante ritratto di umanità, innocenza e dignità, la volontà di evocare, senza pretese realistiche lo ribadisce una fotografia scolorita tendente al seppia – la muta angoscia dell’attesa che tormentava i cuori e le menti stretti nella trincea. Lì, dove gli assurdi ordini impartiti dall’Alto Comando a soldati e ufficiali tra i quali, il Maggiore (Claudio Santamaria) e l’inesperto Tenentino (Alessandro Sperduti), dalle intense interpretazioni diventavano dolo(ro)sa consapevolezza suicida. Perché il vero nemico e qui è forte il richiamo a Uomini contro di Francesco Rosi – non sta al di là del filo spinato imbracciando il fucile, ma alle spalle, privo di un volto e un nome, protetto dall’ipocrisia e vigliaccheria delle scrivanie, dei gradi e del denaro. Mentre lassù, quando la neve sarà sciolta e la guerra finita, i morti e i loro ricordi svaniranno tra i prati, come se nulla fosse accaduto.