Foto di scena ©Claudia Pajewski

Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni – Deflorian/Tagliarini

La mia parola è no. Noi non apparteniamo alla vita. È per un rifiuto che siamo al mondo, per essere scoglio sul mare del tempo contro cui le onde infinite s’infrangono facendosi schiuma. La nostra parola è no.

Scriveva così Pär Lagerkvist – voce preziosa e affilata del Novecento svedese – nel ’27 tra le pagine del suo Det besegrade livet (letteralmente La vita vinta), opera provocatoria e lucidissima in cui la negazione veniva ribaltata a unico e vero atto di affermazione dell’uomo. Il no come alternativa, come traccia attiva, come segno di confine fra liberazione e desiderio. Per comprendere a fondo lo spettacolo di Deflorian/Tagliarini forse è proprio da qui che si deve partire.

In apparenza è tutto molto semplice. Quattro attori (Daria Deflorian, Antonio Tagliarini, Monica Piseddu, Valenino Villa – raro esempio di recitazione misurata e magnetica, impeccabili perfino nei silenzi) entrano titubanti in scena e una di loro si fa avanti per dire che no, lo spettacolo non si farà. La loro intenzione era quella di rappresentare un aneddoto tratto da un romanzo di Petros Markaris: quattro anziane pensionate di Atene che schiacciate dalla recessione decidono di togliersi la vita per non essere più di peso allo Stato. Qualcosa, però, salta e gli attori, come investiti dal riflesso cupo di quelle vite spentesi con tanta discrezione, non riescono a recitare, si fanno da parte, rimangono nell’ombra, ai lati della scena; tuttavia, di tanto in tanto, sono scossi da lampi improvvisi di nostalgia e così tornano a ricordare momenti delle prove, a testimoniare verità impronunciabili, a rievocare un’atmosfera carica di significati o un dettaglio che nella sua essenzialità dava la misura di quel gesto così semplice e clamoroso al tempo stesso.

Ed è proprio da questa continua tensione tra azione e rinuncia che lo spettacolo prende forma e profondità: un movimento impercettibile che porta avanti la non-narrazione attraverso una doppia trazione di spinte centrifughe – abbandonare la scena – e centripete – pur abitarla -. Come nel racconto così nella scena, perché appunto tale è la vita. Ma non si tratta di una denuncia politica, la crisi economica con la sua scia di rovine e morti silenziose non è che un solvente di un artificio più grande. Lo spettacolo di Deflorian/Tagliarini infatti ha un respiro universale, e con estrema sensibilità e intelligenza – magistralmente dissimulate – incarna per l’appunto una questione che attanaglia, da sempre, ogni individuo abbandonato (d)alla vita: perché devo chiedere il diritto di esserci anch’io a questo mondo?

Un interrogativo che equivale a cercare il senso della vita, ma che ha appunto il segno meno davanti e da questa negazione lascia emergere la fatica di vivere, il dolore soffocato di chi vorrebbe solamente esistere eppure non può. «Perché un essere sta al fondo delle tenebre a invocare qualcosa che non esiste?/Perché accade?/ Non c’è nessuno che ascolti chi invoca nelle tenebre./Ma perché mai c’è il grido?» si domanda sempre Lagerkvist.

Prezioso, ironico e intenso, Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni è questo grido, è la sua ragione, è la necessità trattenuta eppure sospirata di manifestare il diritto di esserci.

Teatro India, Roma – 4 novembre 2014

In apertura: Foto di scena ©Claudia Pajewski

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