Teatro a Corte 2016

Quella strana cosa chiamata performance

A Teatro a Corte XVI si indaga il contemporaneo

C’è poco da fare, il contemporaneo fa un po’ paura. O quanto meno, genera una certa diffidenza. Quante volte di fronte a un quadro, uno spettacolo o un film prodotto negli ultimi cinquant’anni si sente bisbigliare con perplessità «Mah, sì—è una cosa moderna»? Ma si sa, l’Italia è ricca di passati, e il presente viene insegnato poco e male. Come a dire: abbiamo avuto Michelangelo, Strehler, De Sica, che ce ne facciamo di Cattelan, Latella, Maresco?

Fortuna però che qualche ben intenzionato, caparbio, lungimirante sostenitore del contemporaneo, alla fine, ce la fa, e quel muro coriaceo di conservatorismo e sufficienza riesce a creparlo. È il caso di Beppe Navello, ideatore e direttore artistico del prestigioso festival piemontese Teatro a Corte. Giunta alla sua XVI edizione, la rassegna si propone esattamente di ricucire questo strappo temporale portando il mondo delle arti performative contemporanee nelle antiche regge sabaude.

E che un dialogo sia possibile è già evidente visitando il Castello di Rivoli, vero e proprio tempio dell’arte post ‘60 che manderebbe in deliquio qualunque amante del contemporaneo: Pistoletto, Merz, Penone, Cattelan, De Maria, Viola – una collezione ricchissima. Proprio qui il 16 luglio sono andati in scena due spettacoli di danza-videoperformance in cui la componente visiva ha un ruolo altrettanto rilevante; entrambi infatti indagano l’interazione di un corpo con l’immagine attraverso l’uso della videoproiezione.

Da un lato Hakanaï dei francesi Adrien M / Claire B (qui la recensione) elabora il concetto di libertà e costrizione: lettere, linee, atomi, muri, crepe, ogni singolo elemento può farsi trappola ma altresì evolvere in superamento dei limiti, e così il performer che è immerso nella stanza semitrasparente delle proiezioni (a 360 gradi) viene investito da buio e luce trasformandosi progressivamente in demiurgo che ri-costruisce sé stesso a partire dalla propria distruzione.

Dall’altro lo scozzese Billy Cowie con Under flat sky propone una compenetrazione poetica tra corpo e pittura: le due danzatrici in scena attraversano le opere di Silke Mansholt – artista tedesca dall’approccio interdisciplinare e new age – dilatando il movimento in una dimensione fortemente rituale, iper-minimalista, dai gesti rigorosi, misuratissimi, raggelati, che contrappuntano in eco l’essenzialità dei brevi haiku – o simil tali – frapposti di quadro in quadro.

Se nel primo caso l’inquinamento luminoso proveniente dalle altre sale del museo rischia di compromettere l’impatto visivo delle videoproiezioni e di conseguenza minare la poetica dell’intero lavoro (che per sua stessa natura non può prescindere dalla componente estetica); nel secondo il rigore formale è talmente rigido e mono-tono da estenuare l’atto stesso dell’osservazione (seppur la performance duri poco più di mezzora).Tale criticità si ripresenterà l’indomani a Racconigi con gli anglo-belgi Reckless Sleepers. E ora arriviamo al punto.

Alle spalle del Castello di Racconigi, A string section vede cinque donne, eleganti nei loro abiti corti, neri: tacchi, rossetto, espressione compita, sostenuta, come un “quintetto di archi” per l’appunto pronto a intonare il proprio concerto. Sennonché il loro strumento, in realtà, è una sega da falegname, e l’esecuzione – esilarantemente seriosa, con un’ironia forse poco vicina alle corde italiane ma inappuntabilmente raffinata – consisterà nel taglio, pezzo dopo pezzo, della propria sedia.

Ora. Certamente una performance del genere innesca una tale quantità di segni che i piani di lettura si moltiplicano esponenzialmente – dal dadaismo al nouveau cirque, dalla precarietà dell’artista alla condizione della donna, dalla carica erotica a quella distruttiva, e via dicendo – ma il problema è che nel suo svolgersi rischia di esasperare un po’ gli animi, rivangando le solite accuse che si muovono all’arte contemporanea, soprattutto a quella concettuale. Vale a dire. Una persona che sega per quaranta minuti una sedia è arte? E la domanda, per quanto basica, non va osteggiata con altrettanta sufficienza, perché in parte risponde alla “provocatorietà” di un’arte che non sia strettamente figurativa.

Questa difficoltà di “contatto”, a ben guardare, rispecchia una dispersione tutta contemporanea che è tanto sociale quanto culturale: il cittadino globalizzato oggigiorno si identifica, da un lato, in un passato fumoso ma sicuro (il senso di appartenenza), dall’altro in un presente ondivago dominato dai consumi (una dittatura pop senza frontiere), pertanto non riesce a percepire “di cosa” egli sia parte, “chi” lo osteggi o tanto meno “quale arte” lo possa, per così dire, rappresentare. Rendendo tutti apparentemente simili e “uguali”, dunque, la democrazia del mercato finisce per sfocare i tratti di ciò che un tempo si sarebbe detto lo status quo e di conseguenza anche una “provocazione” in arte non è più ben chiaro chi provochi e in nome di chi o cosa lo faccia.

In questa crisi di identità, anche il fenomeno “performance”, a sua volta, rischia di trasformarsi immediatamente in maniera di sé, ovvero: troppo spesso l’espediente e l’idea su cui si fonda un lavoro non riescono a svilupparsi oltre l’intuizione iniziale, tutto finisce per congelarsi in un pensiero esasperato e reiterato, e ciò inevitabilmente genera smarrimento nello spettatore. Come già notammo a proposito dei “Pezzi staccati” del Giulio Cesare di Castellucci(leggi qui), la bidimensionalità di un quadro performato, proiettato o danzato che sia rischia di non trovare un’evoluzione temporale (perciò teatrale) al di là dell’immagine che evoca; quindi dov’è il confine fra arti visive e arti performative?

Pur trovando la proposta di Teatro a Corte estremamente originale, diversa, valida, performance come Under Flat Sky e A string section – tanto più che il festival riesce ad avvalersi, al di là delle difficoltà logistiche che è costretto suo malgrado a patire, di luoghi unici – ci sembrano molte più adatte a una fruizione “museale”: lo spettatore, ma sarebbe meglio dire il visitatore, vi incapperebbe senza eccessiva intenzionalità e deciderebbe di rimanere a osservare per il tempo che desidera, in totale libertà. Certo, ciò ovviamente comporterebbe costi, nonché modi e tempi, decisamente altri, ma la “costrizione” a rimanere per tot minuti fermi a osservare qualcosa che, in qualche misura, prescinde dalla dimensione temporale e non concede altri approcci fruitivi (spostarsi, avvicinarsi, allontanarsi, soffermarsi, abbandonare, ritornare), è la prima ragione di possibile insofferenza.

Come scriveva il teorico Fersen, dopotutto, il teatro è cio che «accade», non ciò che «c’è».

(Foto ©Domenico Conte)

Ascolto consigliato

Rivoli (TO) e Racconigi (CN) – 15 e 16 luglio 2016

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