Still Alice – Richard Glatzer, Wash Westmoreland

E se i nostri ricordi svanissero? Se uno ad uno, lentamente, gli attimi della nostra vita volassero via come nuvole di sogni al risveglio, cosa resterebbe di noi che, impotenti, possiamo solo guardarci sparire? Questa è la domanda, la riflessione, la disarmante presa di coscienza che Richard Glatzer e Wash Westmoreland trasformano in immagini con Still Alice, opera in concorso nella sezione Gala al Festival Internazionale del Film di Roma.

Alice Howland è una donna la cui vita “perfetta” (studiosa e docente di linguistica alla Columbia University all’apice della carriera, con una famiglia devota e una grande casa nel centro di New York) viene sgretolata da una rara e precoce forma di morbo di Alzheimer. Ecco il nemico contro il quale non si può combattere e che, soprattutto, non si può sconfiggere. Una consapevolezza imposta allo spettatore attraverso una regia pulita, nitida – vicina allo stile classico – che evita narcisismi e virtuosismi per concentrare spietatamente sguardo ed emozione sul dramma diegetico: unica trasgressione, l’uso della sfocatura che astrae Alice – quasi tridimensionale – dal resto del mondo, macchia indistinta, permettendoci di toccare quel non-luogo svuotato di spazio e tempo: la sua mente.

La purezza estetica delle immagini (la cui profondità è sottolineata da una fotografia densa, quasi plastica), che definisce una dimensione ovattata, silenziosa, va di pari passo con una sceneggiatura e un montaggio altrettanto sobri, delicati, a tratti prevedibili forse (come l’arrivo della governante nell’istante in cui Alice sta per ingoiare un intero flacone di pillole), mai sopra le righe, stravagante, ma neppure scontata, banale. E questo perché non è un film sulla malattia, sulla superficiale volontà di istruire, spiegare e tantomeno “risolvere il caso” del paziente smemorato. È invece la di-mostrazione di una condizione umana e sociale plasmata, deformata dall’infermità. È l’effetto, la reazione della comunità (famigliare) alla causa, la patologia, in una sorta di “cinque fasi del lutto” (dal rifiuto, all’autocompiacimento, dalla rabbia alla accettazione) che trascina il marito John (un Alec Baldwin che sottilmente passa dall’iniziale scetticismo all’essere amorevole e pietoso) e i tre figli (Kate Bosworth, Hunter Parrish e Kristen Stewart, “maschiaccio” ribelle e aspirante attrice, l’unica meno – e mono – espressiva) nel rancore della rassegnazione, mentre Alice (una commovente Julianne Moore capace di svuotare progressivamente gli occhi dagli sguardi, il corpo dai movimenti, la bocca dalle parole) assiste, lucida, alla propria scomparsa, come un essere senza vita.

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