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La certezza Radiohead

Qualche considerazione sulla band di Oxfordshire dopo la data fiorentina del tour

Nella vita possediamo poche certezze. Concetto ben noto a tutti, ma in fondo, forse, è meglio così. Sappiamo benissimo, ad esempio, che la Juventus non riuscirà a trionfare in una finale di Champions; che LeBron James perderà buona parte delle Finals, o che comunque non segnerà il canestro decisivo per aggiudicarsele; e che l’interista, messo alle strette, rivendicherà il beneamato Triplete. O ancora, abbiamo imparato ad apprendere che negli Stati Uniti (e non solo) chiunque può diventare Presidente; che gli U2 avrebbero dovuto fermarsi almeno venti anni fa; che Woody Allen non dovrebbe girare ancora così tanti film. Ma se dovessimo pensare anche a qualcosa di positivo, in questo breve elenco delle certezze, possiamo sicuramente includere i Radiohead.

Partiamo dall’attività in studio. Sia chiaro, la band di Oxfordshire non ha prodotto solo capolavori, ma anche i “passi falsi” – se proprio vogliamo definirli così – alzano l’asticella qualitativa rispetto alla media musicale offerta degli altri musicisti internazionali. In venticinque anni di carriera – da quando hanno cambiato il nome da On a Friday a Radiohead – la band britannica è riuscita a esplorare dimensioni sonore differenti, a reinventarsi, a ibridarsi senza mai perdere lo smalto e la vena creativa che li ha contraddistinti nel corso degli anni.

Se pensiamo all’ultimo album, A Moon Shaped Pool, riusciamo a capire meglio il discorso. Bistrattato da una buona fetta di fan e parte della critica, il disco contiene, solo per citarne alcuni, brani come Daydreaming, e le sue ipnotiche note al piano che trasportano l’ascoltatore verso scenari cupi e misteriosi; Burn the Witch, con i dirompenti e mai domi archi; The Numbers, traccia in cui è facile smarrirsi dentro; Present Tense, con tutte le sue variazioni timbriche e sonore che partono da un arpeggio infinito; e, ovviamente, True Love Waits, finalmente registrata dopo essere stata in tour per quasi due decadi. Troppo poco? Direi proprio di no.

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Foto ©Raffaella Di Gennaro

Una produzione musicale di tal portata, però, ha bisogno di essere confermata anche dal vivo. E qui partono altre certezze, senza dubbio aumentate dopo aver assistito al concerto di Firenze (Ippodromo del Visarno). Partiamo dalla performance. Esibirsi davanti a 50.000 spettatori non è mai semplice, ma di certo la band ormai non si lascia intimorire da questi numeri. Però riuscire a rimanere sempre perfettamente concentrati, riducendo al minimo ogni piccola sbavatura, non è da tutti. Il live è semplicemente chirurgico, dalla chitarra di Greenwood alle variazioni timbriche di Yorke, passando per l’incisiva batteria che ha aggiunto un altro tassello (Clive Deamer) per il tour in corso. Forse si concede troppo poco all’improvvisazione, ma quando in scaletta hai brani come Bloom, Myxomatosis e There There, che sono vere e proprie improvvisazioni studiate a tavolino, può anche starci.

E poi c’è, appunto, la scaletta. Non sai mai cosa aspettarti durante un loro concerto. La setlist subisce costantemente variazioni, paese dopo paese, data dopo data. A fine concerto si ha sempre l’impressione che non basterebbero quattro ore per rimanere realmente appagati, figuriamoci due. E questo la dice lunga sull’ampiezza del repertorio maturato nel corso degli anni. Ma questa volta è stato lievemente diverso, perché – complice l’anniversario di OK Computer e la probabilità che da questo tour venga inciso un disco live – i Radiohead hanno dato spazio a tutte (o quasi) le hit che hanno accompagnato una carriera irripetibile. Da The Bends fino ad arrivare a A Moon Shaped Pool, tutti gli album presenti all’appello eccezion fatta per Pablo Honey. Ma si rifaranno con gli interessi durante la data di Milano.

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Foto ©Luca Pellicani

Ma anche l’occhio vuole la sua parte. E in questo tour, il disegno luci che accompagna la performance è certamente degno di nota. Luci sceniche sempre mutevoli si accordano perfettamente alle atmosfere sonore create dal gruppo, mentre dal fondo vengono riprodotti puzzle composti da alcuni dettagli dei musicisti sul palco che, via via, cambiano sfondo cromatico. Basta così? No, impossibile non ricordare il dettaglio sull’occhio di Thom Yorke durante l’esecuzione di You and Whose Army?. E poi, diciamola tutta, vedere il volto ondeggiante di Yorke, la sua danza durante Lotus Flower, o il capo chino di Greenwood mentre suona i suoi vari strumenti ha sempre un certo fascino.

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Foto ©Raffaella Di Gennaro

Concludiamo con la capacità della band di cambiare per qualche minuto la percezione di spazio e tempo. Nello specifico ci riferiamo a ciò che accade durante l’esecuzione di Exit Music (For a Film). Impresa ardua descriverlo, ma si ha come la sensazione di essere trasportati in una dimensione parallela in cui tutto, letteralmente, si ferma improvvisamente. 50.000 persone rimangono immobili e in silenzio tombale di fronte alla chitarra acustica e al crescendo vocale di Yorke. Si rimane quasi spiazzati da questa quiete inaspettata e sconvolgente. Forse, solo questi 4 minuti valgono il prezzo del biglietto.

Ippodromo del Visarno, Firenze – 14 giugno 2017

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