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Kodachrome

Seguendo la classica e inossidabile struttura del road movie Netflix prosegue la propria operazione nostalgia

I primi anni duemila lasceranno certamente ai posteri l’incisivo ricordo di epoca di transizione generazionale ben più di altre decadi. Il lascito di questo delicato periodo sarà probabilmente quella di unico momento storico in cui l’analogico e il digitale hanno passivamente convissuto, fino al quasi totale assorbimento del primo da parte di quest’ultimo. Da questo meditativo assunto trova radici Kodachrome (2018), un lungometraggio che già dal suo titolo lancia più di uno sguardo a una realtà di recente estinzione. Fatto che però, troverà  una singolare congiunzione con alcune avanguardistiche concenzioni moderne, una fra tutte l’essere prodotto da una  piattaforma futurista come Netflix. Il ramo produttivo di Netflix pare quasi non rendersi conto di essere artefice di una operazione celebrativa di realtà analogiche che il colosso dello streaming online ha, seppur collateralmente, contribuito a soffocare. Il film trova ambientazione durante gli ultimi giorni di attività del celebrato sistema di sviluppo fotografico Kodachrome. Matt (Jason Sudeikis), riallaccia dopo molti anni il rapporto con il padre Ben (Ed Harris), un fotografo di fama mondiale. Ben, malato terminale di cancro, ha il solo desiderio di  compiere con il figlio una traversata in auto degli Stati Uniti, fino ad arrivare all’ultimo laboratorio di sviluppo Kodachrome prima che questo chiuda per sempre.

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Seguendo la classica e inossidabile struttura del road movie tipicamente americano viene strutturato il confronto generazionale dei due personaggi principali. Il sempre imponente Ed Harris (The Truman Show , Apollo 13, A Beautiful Mind) regala un’interpretazione sentita e che sa commuovere, divenendo simbolo di una concezione artistica morente e che mai più ritroveremo. Jason Sudeikis (Horrible Bosses, The Campaign, Downsizing) si discosta dal tipo di commedia di cui è abituale interprete, virando verso un ruolo drammatico che non sempre convince. La regia di questa nostalgica operazione viene affidata a Mark Raso. Cineasta alla sua opera seconda precedentemente distintosi per l’apprezzato Copenaghen (2014), opera indipendente sull’analogo tema delle problematiche generazionali e dei conflitti a queste annesse. Sebbene ostenti una discutibile passione per l’arte fotografica, la regia di Raso è di stampo estremamente televisivo e incapace di una reale narrazione per immagini, che cerca sostegno, piuttosto, nelle prove attoriali.

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Il documentare un fatto reale con la sua estetica vintage è l’aspetto a cui il lungometraggio deve la quasi totalità del suo fascino. Estetica che sta sempre più ritrovando i favori del pubblico negli anni recenti dando vita a molte operazioni di rivisitazione di franchise passati. Kodachrome si colloca certamente in una posizione superiore rispetto alle sempre più discutibili produzioni cinematografiche Netflix, continuando, comunque, a conservare le incertezze di un film concepito non per il grande schermo. Citando il film stesso, un po’ come quella fotografia digitale tanto disprezzata poiché mai destinata a vedere la stampa.

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