Foto di scena ©Claudia Pajewski

Il Deserto di oggi

La narrazione del reale in Quasi Niente di Deflorian/Tagliarini

Quasi Niente, l’ultimo spettacolo di Deflorian/Tagliarini presentato nell’ambito del Romaeuropa Festival, sembra gravitare attorno a domande fondamentali che ci riguardano da vicino: ma cosa c’è che non va nella nostra società? Perché siamo così infelici?

C’è qualcosa di terribile nella realtà e io non so cos’è, nessuno me lo dice.

Parafrasando questa frase dell’inquieta e fragilissima Giuliana/Monica Vitti del Deserto Rosso di Antonioni, film a cui lo spettacolo si ispira, sembra che anche nella nostra realtà ci sia qualcosa che non va, pur con le grandi differenze rispetto agli anni Sessanta del post-boom economico tratteggiati con rara incisività in Deserto Rosso. L’intento di Deflorian/Tagliarini in Quasi Niente è tanto arduo quanto ambizioso, quello di dare un nome a questa realtà – di oggi –: cercare di comprenderla, farne quasi un oggetto di studio sul palco attraverso il linguaggio teatrale, darne una cornice e proporne una narrazione. Tutto questo però a partire da una materia intima e personale (ma non necessariamente autobiografica) che permetta di dipanare quel filo rosso che unisce disagio interiore ed esteriore, dolore privato e collettivo. Il fondale della precedente creazione è ancora lì, e non è soltanto uno sfondo ma parte integrante del proprio mondo personale: i due mondi si influenzano, risuonano l’uno nell’altro, anche se stavolta l’attenzione è spostata maggiormente nell’abisso del proprio dolore e quindi verso sé stessi, come attori e come esseri umani che, paradossalmente, cercano uno spazio d’intimità sul palcoscenico.

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Foto di scena ©Claudia Pajewski

Il Teatro Argentina è adibito a spazio spoglio (pochissima mobilia) e vastissimo, di una profondità che mette quasi a disagio, come se fosse una grande camera della mente à la Lucia Calamaro dove i pensieri fluttuano e vengono inghiottiti nel vuoto, illuminati dalle luci tenui e rarefatte di Gianni Staropoli, capaci di creare atmosfere ora più “annebbiate” ora più uterine – un mondo altroUn velatino sta a dividere lo spazio della finzione, nel fondo, con un proiettore che richiama il mondo del cinema e che getta una luce violenta sul muro, dallo spazio antistante che è quello della verità, delle piccole confessioni goffe e quotidiane che potremmo sentire da ciascuno di noi, del dolore che tutti conosciamo e che in scena diventa lampante nella sua nudità, nel suo disagio a essere detto.

Foto di scena ©Claudia Pajewski

Foto di scena ©Claudia Pajewski

Su questo palco abitano cinque personaggi che ben presto slittano dalla terza alla prima persona, sancendo l’impossibilità di essere personaggio (e quindi un teatro tradizionale con una trama). Il loro darsi il cambio per la parola su una poltrona, ciascuno per trovare, cambiare o riflettere sul proprio posto nel mondo, non è solo letterale ma anche generazionale, anche se questo dolore costante sembra appiattire le differenze tra un’età e l’altra: inizia «la quarantenne» (la straordinaria Monica Piseddu) con «io non ce la faccio», alle prese con i propri nodi irrisolti del passato e del presente; poi c’è «la quasi sessantenne» (Daria Deflorian) e le sue piccole paranoie quotidiane che sono il sintomo di una difficoltà più profonda di stare al mondo; il «quasi quarantenne» artista e precario (Benno Steinegger); «il cinquantenne» (Antonio Tagliarini) e le sue relazioni sentimentali problematiche, nonché l’insoddisfazione generale per la sua vita. Neanche «la trentenne» (Francesca Cuttica), che forse fra tutti dovrebbe essere la meno disillusa, se la passa bene, visto che intona, con una splendida voce, canzoni malinconiche («cerco spazi di disagio esistenziale/ per tornare a immaginare/ come essere normale/ ritornare elementare» della band romana WOW, composta da Leonardo Cabiddu e dalla stessa Cuttica).

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Foto di scena ©Claudia Pajewski

Così, ecco che con l’aiuto di riferimenti letterari – da Alice Munro a Jakob Von Gunten di Robert Walser – ciascuno svela il proprio disagio passando con agilità da sé stessi al piano di Deserto Rosso, non attuando un semplice confronto con esso ma immettendolo come un materiale drammaturgico trasversale fra la realtà e la finzione, senza perdere mai di vista la nostra realtà. Quello che si delinea è quindi un paesaggio piuttosto complesso e desolato (a volte riscattato da una lieve ironia che stempera i toni) in cui affiorano con forza quegli aspetti rimossi della società capitalistica di cui nessuno parla, tra cui senso di inadeguatezza, frustrazione, soglia dell’attenzione ridotta, ansia e paranoie derivanti dal «culto della performance» e di essere i leader di sé stessi, solipsismo, relazioni alla stregua di un supermercato usa e getta. Ma che accade in scena?

Si parla, si interagisce – poco, poiché questi cinque mondi a sé stanti non riescono a collidere e ad accogliersi a vicenda, altro chiaro riferimento all’alienazione di Giuliana –, si indugia nel dolore, si cerca di sbrogliare questa matassa di disagio e di farlo entrare in risonanza con l’esterno. Ciò avviene attraverso le parole strazianti dello scritto Buono a nulla di Mark Fisher – teorico culturale e critico musicale morto suicida nel 2017 – letto in scena con commovente aderenza emotiva da Daria Deflorian, che tenta di ricondurre l’origine della depressione a una matrice più sociale e politica («depressione collettiva» la chiama Fisher) suscitando non poche questioni, delicate, che sicuramente meriterebbero un approfondimento: stiamo dando la colpa alla società per quello che siamo? Tutta la società è malata? E nello spettacolo stiamo parlando di depressione – quindi la stessa malattia mentale di Giuliana nel Deserto Rosso – o di un forte disagio del vivere collettivo?

Foto di scena ©Claudia Pajewski

Foto di scena ©Claudia Pajewski

A nostro avviso, si rischia di fare confusione tra i due. Perché l’aspetto di Giuliana che emerge di più in Quasi Niente è quello del disagio esistenziale, della non conformità alle aspettative del mondo esterno, che gli attori fanno propria per esplorare un diverso disagio di vivere tutto contemporaneo. Così, al netto dell’indiscussa carica emotiva di tale intervento, se da un lato esso permette di entrare più in profondità all’interno dei meccanismi di potere che regolano la società liberista e sicuramente di fare un confronto con il diverso rapporto tra operai/padroni nel Deserto Rosso, dall’altro si introduce un argomento vasto e complesso che non ha il tempo di essere sviluppato nel corso dello spettacolo e il cui messaggio potrebbe essere frainteso poiché questa depressione collettiva potrebbe far cadere in un vittimismo da cui è difficile smarcarsi. Infine, in scena si cerca la comprensione e la complicità del pubblico: la si trova—e questo rappresenta sia il pregio che il limite dello spettacolo.

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Foto di scena ©Claudia Pajewski

Il grande merito di Quasi Niente è infatti quello di attuare un riconoscimento. Mettendo in scena la realtà nella sua sfera più vulnerabile, defilata e difettosa, ecco che la platea – per lo più borghese, intellettuale e dalla vita complicata – può sicuramente rispecchiarsi su quel palco, riflettere su sé stessa e sui propri problemi, ma basta questo riconoscimento? Cosa possono dirci in più quelle parole, quegli sguardi complici, quei silenzi incombenti, quei gesti di nevrosi latente pronta a sfogarsi sui mobili, su questa realtà, a parte il sentirci parte di essa? Forse da spettatori avremmo bisogno di un passo ulteriore in grado di trasformare questa narrazione in qualcosa di diverso. Altrimenti il rischio, dopo il nostro riconoscimento, è quello di auto-indulgere in questo sentimento, di comprenderci, di compiangerci o addirittura di trovarci “interessanti” nella nostra sofferenza (la sazietà, tutto sommato, è una benedizione).

Forse è proprio da qui che si può partire, ed è su questo che i cinque attori in scena ci fanno riflettere con sentita intensità interpretativa: dal riconoscere finalmente questo disagio, non vergognarci più della nostra fragilità, avere il diritto di non essere invincibili come la società ci vorrebbe, per poi infine estrapolare da qui una visione diversa del reale—che non sia autoconsolatoria ma più propositiva.

Ascolto consigliato

QUASI NIENTE

progetto Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
liberamente ispirato al film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni
collaborazione alla drammaturgia, aiuto regia Francesco Alberici
con Francesca Cuttica, Daria Deflorian, Monica Piseddu, Benno Steinegger, Antonio Tagliarini
collaborazione al progetto Francesca Cuttica, Monica Piseddu, Benno Steinegger
consulenza artistica Attilio Scarpellini
il testo Buono a nulla è di Mark Fisher
luce, spazio Gianni Staropoli
suono Leonardo Cabiddu, Francesca Cuttica (Wow)
costumi Metella Raboni
traduzione e sovrattitoli in francese Federica Martucci
direzione tecnica Giulia Pastore
organizzazione Anna Damiani
accompagnamento, distribuzione internazionale Francesca Corona / L’Officina
produzione A.D., Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, Emila Romagna Teatro Fondazione Coproduzione théâtre Garonne, scène européenne Toulouse, Romaeuropa Festival, Festival d’Automne à Paris / Théâtre de la Bastille – Paris, LuganoInscena LAC, Théâtre de Grütli – Genève, La Filature, Scène nationale – Mulhouse
sostegno Istituto Italiano di Cultura di Parigi, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, FIT Festival – Lugano
Foto ©Claudia Pajewski

Teatro Argentina, 9 ottobre 2018

 

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