Et in terra pax – Matteo Botrugno, Daniele Coluccini
In questi giorni a Milano è in corso presso la Cineteca (Spazio Oberdan) la nona edizione della rassegna Il cinema italiano visto da Milano che accanto alla riproposta di alcuni dei principali titoli dell’ultima stagione presenta un interessante programma di prime visioni. Cuore della manifestazione è il concorso Rivelazioni che propone a una giuria popolare di appassionati cinque film di registi italiani emergenti ancora in cerca di una distribuzione. Tra questi Et in terra pax di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini.
Il film del duo esordiente romano, come ci comunicano gli autori presenti in sala, è stato prodotto dall’indipendente Gianluca Arcopinto, presentato alle Giornate degli Autori dell’ultima Mostra di Venezia, ha poi ricevuto consensi nei vari festival internazionali cui è stato successivamente iscritto. Attualmente è in trattativa per la distribuzione, trattative che ci auguriamo con tutto il cuore si risolvano positivamente.
A Corviale, profonda periferia romana, si intrecciano tre storie. Marco torna a casa dopo cinque anni di galera e prova a stare alla larga dai vecchi amici e i loro giri di spaccio, senza successo. I tre amici Faustino, Massimo e Federico vivono annnoiati la realtà di borgata: furtarelli, coca, partite di pallone, niente ragazze. Sonia è una studentessa universitaria che prova a guadagnare qualcosa lavorando nel bar del quartiere, senza trovare intorno a lei troppa comprensione per i suoi sforzi. Tre segmenti di vita banali il cui scontro produrrà un tragico, detonante finale.
Una storia crudele e disperata, girata in una torrida, orrenda periferia in cui il cemento armato occupa le inquadrature, chiude l’orizzonte, sovrasta personaggi giovani e già sconfitti, perduti pellegrini in una Terra desolata che è fisica e metaforica, geografica ed esistenziale. Non si parla davvero di nulla, non c’è vera comunicazione (solo un meraviglioso romanesco salace e affilato, che riempie il vuoto dei discorsi), non c’è azione fino alla fine, dove la rottura dell’inazione generale porta solo all’orrore finale.
I due giovani registi portano sullo schermo una storia che richiama il primo Pasolini, attraversato da suggestioni che vanno da L’odio di Kassowitz al cinema di Hong Kong (nel grandissimo finale). La messa in scena è di altissimo livello, a cominciare dalle scenografie al casting che raccoglie tanti ottimi giovani del Centro Sperimentale e azzecca tutte le parti, tutte le facce; per arrivare a una sceneggiatura che riesce ad esprimere nei dialoghi e nei silenzi tutto il vuoto possibile. Si perdona all’opera prima qualche fisiologica ingenuità stilistica gli inseguimenti vansantiani ai protagonisti nelle prime sequenze e la scelta di musiche d’opera forse eccessivamente ridondanti, comunque in grado di spiccare per contrasto con le immagini che accompagnano.
Un’opera che ci consola. C’è vita anche nel cinema italiano, peccato che sia nascosta dalle grandi produzioni/distribuzioni come la polvere sotto il tappeto: quello che è in grado di raccontarci non piacerà troppo al grande pubblico, ma ne abbiamo bisogno con del pane, come dell’aria fresca.