Cold War
Un odissea d’amore dolorosamente romantica e malinconica.
Ardente e soave, intimo e crepuscolare, virginale e spoglio, Cold War di Pawel Pawlikowski, Premio Oscar per Ida (2015), premiato per la miglior regia nell’ultima edizione di Cannes, è la storia della travolgente passione che lega i due musicisti polacchi Wiktor e Zula, vittime del potere e dei tumulti del mondo, e della loro brama di un assoluto, che solo l’arte e l’amore inteso come un’autodistruzione reciproca può offrire. Girato in un formato in 4:3, con richiami a certe composizioni di Carl Theodor Dreyer e Béla Tarr e in un monocromatismo tanto rigoroso da rendere ogni singolo fotogramma simile ad uno scatto artistico, in Cold War il regista ripropone una forte e personale idea di cinema, contraddistinta da una narrazione scarnificata che procede come una successione di istantanee apparentemente slegate tra di loro.
Wiktor (Tomasz Kot) è un pianista di mezza età reclutato dal regime socialista per mettere in piedi uno spettacolo di musica popolare capace di esaltare la grandezza della Polonia. Il suo sogno è suonare il Jazz, la musica della perdizione che viene dagli Stati Uniti. Durante un audizione incontra la giovane Zula (Joanna Kulig) cantante bellissima quanto inesperta, ma reazionariamente convintissima del suo essere ribelle. I due si innamorano l’un l’altro, un amore tossico e concitato messo alla prova dai tumulti della storia. Una devozione reciproca, che è l’unica cosa nel loro modo non costruita sulla sabbia. Dai freddi inverni della Polonia, alle solitarie strade della Francia, fino ad arrivare alla funebre Berlino, per quasi vent’anni, precisamente dal 1949 al 1964, la coppia cercherà un unione, riuscendo per disgrazia solo ad infliggersi ferite e umiliazioni.
La pellicola funzione come una macchina del tempo fatta di entusiasmanti immagini cristallizzate. L’eccitazione che si prova, seduti nell’oscurità della sala, nel fissare Joanna Kulig scatenarsi da ubriaca in un fumoso club di Parigi dove echeggia l’energica Rock around the clock di Bill Haley and His Comets, ci congiunge con estasi cinefila a quel pubblico idealista che nel 1964, sempre in una sala cinematografica, perdeva la testa per Anna Karina che turbinosa ballava sulle note di un Juke box in Bande à Part di Jean Luc Godard.
Il sottile abbinamento tra canzoni e ideologie eversive, avvicina Cold War all’essere un musical riflessivo e non convenzionale che anche Andrzej Wajda avrebbe desiderato scrivere e realizzare. La colonna sonora è il paradiso dei cultori della musica, e spazia da Bach e Chopin, a ipnotizzanti sonorità folk, fino ai standard blues e rock. La musica evolve con i personaggi, è in simbiosi con loro ed esprime con potenza quello che non riescono a dire. 88 minuti intensi e strazianti che confermano il talento autoriale di Pawel Pawlikowski.