Cemetery of Splendour Apichatpong Weerasethakul

Cemetery of Splendour – Apichatpong Weerasethakul

Un film di Apichatpong Weerasethakul non lo si vede per sbaglio: non si viene trascinati dall’amico cinefilo alla solita proiezione d’autore. Il film di Apichatpong si sceglie, perché solo con la piena consapevolezza della scelta si può essere pronti ad affrontare un discorso e cinematografico e spirituale. Il cinema del regista thailandese non si è offre facilmente alla comprensione: il testo è complesso e stratificato. Cemetery of Splendour, la sua ultima fatica, non può certo fare eccezione.

C’è una trama che ruota attorno a una misteriosa epidemia di narcolessia, ma questo è l’ultimo dei pensieri del regista, che parte da questo spunto per ambientare la storia in un ospedale thailandese dal forte sapore autobiografico: in un ospedale simile, infatti, Apichatpong è cresciuto essendo figlio di un medico. L’autobiografismo latente solleva il tema della memoria, vero fulcro di quest’opera: non a caso, il film comincia con l’inquadratura di una ruspa che scava su un terreno. Non è forse così, cioè scavando, che si riportano alla luce i ricordi? Scavare significa smuovere il presente nella prospettiva di creare un futuro e, nel processo, ritrovare il passato.

Ma ancora una volta, la questione non può essere così semplice: il rapporto con la memoria e con il passato qui è piuttosto problematico. I soldati, mummificati nei letti dell’ospedale, sono corpi e quindi storie che non possono non essere raccontate. I soldati come il cinema: storie morte che hanno bisogno di un mezzo per essere narrate, o meglio, un medium. E qui, infatti, ne abbiamo una che prova a leggere nella mente dei degenti. Con questo presupposto, impossibile non tirare in mezzo, ancora una volta nella sua filmografia, la ricorrenza del fantastico.

Anche in Cemetery of Splendour troviamo spiriti divini e quello che stupisce, una volta di più, è che Apichatpong non ha bisogno di effetti speciali per narrare il fantastico. Del resto, il romanzesco è insito nel cinema stesso e il regista non fa altro che sfruttare il suo forte potere evocativo. Basta vedere la scena in cui le due protagoniste femminili attraversano un boschetto incolto e con poche parole ci viene illustrato minuziosamente un palazzo reale: non c’è nulla davanti ai nostri occhi, come davanti a quelli dei personaggi, ma riusciamo comunque a vedere tutto, un’impressione d’esistenza fortissima che non può che derivare dalla sapiente narrazione che una delle due donne fa all’altra: un gesto ancestrale, quello del raccontare, che abbiamo metabolizzato profondamente.

Ci sono poche inquadrature, per una regia che nel complesso preferisce non essere simmetrica o precisa, anzi, si diverte ad apparire scomposta, laterale, decentrata in conclusione. Le inquadrature sono lunghe, talvolta infinite, e statiche al limite della sopportazione umana. L’immobilità della macchina da presa ci costringe così a riflettere maggiormente su quello che non vediamo, quello che resta fuori dal quadro. Il cinema di Apichatpong è sì contemplativo, ma non tanto dell’animo dei personaggi quanto, soprattutto, dello spazio, del non visto o del non detto. Un cinema dell’assenza. E si arriva così, naturalmente, a riflettere sull’atto stesso di fare cinema. Se il cinema è movimento, Apichatpong ci nega quel cinema, per poi sbattercelo in faccia nuovamente sul finale, con tutta la vivacità pop che gli riesce e gli appartiene; un finale nel quale quasi si esulta alla presenza di quell’unica panoramica del film: una panoramica inequivocabilmente meta-cinematografica.

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