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Bill Hicks conteneva moltitudini

«Vengo da quello che chiamo il mio “UFO Tour”, significa che come gli UFO anch’io sono comparso in oscure città del Sud, davanti a manciate di buzzurri. Ho dubitato della mia stessa esistenza»

William Melvin “Bill” Hicks era davvero, a suo modo, un UFO. Cresciuto nel profondo Texas in una famiglia battista, portava come cognome il più comune degli spregiativi per definire gli abitanti del sud agricolo e fondamentalista: sono definibili “hicks” (bifolchi, sempliciotti, campagnoli) personaggi come il mostro Leatherface di Non aprite quella porta o Cletus dei Simpson. Bill è cresciuto in un sobborgo di Houston chiamato Nottingham Forest, come il mitico covo di Robin Hood. Houston, la città della NASA.

Il Sud della “bible belt”, il fuorilegge che rubava ai ricchi per dare ai poveri, l’esplorazione spaziale: sarà un caso ma queste poche note biografiche dicono già tantissimo di quello che è stato Bill Hicks, uno dei più grandi stand-up comedian della storia, strappatoci troppo presto da un cancro al pancreas il 26 febbraio del 1994.

Parlare di un comico come Bill Hicks e della sua eredità significa discutere di un tipo di spettacolo, la stand-up comedy, tipicamente americano, che ha poco a che fare con il nostro cabaret o anche con la satira politica più dura e riuscita. Il performer sta di fronte a un pubblico, di solito in un locale notturno, un pub con la serata “microfoni aperti”, armato solo di un microfono, parla. Porta se stesso in scena e crea una comicità puramente di parola e attraverso questo semplice dispositivo i grandi – come Bill, ma anche Woody Allen che ha iniziato così, Lenny Bruce, George Carlin, David Letterman, Eddie Murphy – costruiscono mondi, interpretano e rimescolano la realtà e le conoscenze, fanno poesia, nel senso che vi dava Umberto Eco, quella «capacità di portare tenerezza, pietà, cattiveria a momenti di estrema trasparenza, come se vi passasse attraverso una luce e non si sapesse più di che pasta sian fatte le cose».

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Bill Hicks prese il microfono in un night la prima volta a quindici anni, lo fece solo per cinque volte prima che il Comedy Workshop di Houston, un locale in cui non avrebbe neanche potuto entrare perché troppo giovane, cominciasse a pagargli gli spettacoli. Da allora fino alla morte, avvenuta a soli 32 anni, avrebbe attraversato l’America in lungo e in largo, come un predicatore o, meglio ancora, un cavaliere solitario, conoscendo un successo crescente ma relativo, ben inferiore a quello dei nomi citati poche righe fa. La grandezza assoluta di Hicks, il motivo per cui oggi siamo qui a ricordarlo nonostante nessuna sua opera sia stata trasmessa o distribuita in Italia fino a quando un gruppo di appassionati non ha cominciato a sottotitolare e mettere su YouTube i suoi spettacoli (e non è scoppiata la polemica sulle “citazioni” di Daniele Luttazzi) è nella sua capacità di parlare al nostro immaginario, la sua acutissima comprensione del mondo in cui viveva, la feroce distruzione che ha portato avanti di ogni retorica e, soprattutto, banalmente, nel suo farci morire dal ridere.

Si potrebbe leggere la produzione di Bill Hicks come un romanzo, uno di quei romanzi della prima ora, caotici e circolari, digressivi e policentrici, in cui pare che l’autore abbia voluto infilare a forza tutto il mondo. I temi favoriti ritornano spesso: la polemica con il conservatorismo religioso; la denuncia della banalizzazione e decadenza della cultura popolare («Da quando la mediocrità e la banalità sono diventati un buon esempio per i vostri figli? Io voglio che i miei figli ascoltino gente che fa del cazzo di rock! Non mi frega se sono morti in una pozza del proprio vomito»); la sistematica destrutturazione dei luoghi comuni e dei messaggi capziosi di pubblicità e media; la legalizzazione delle droghe come bandiera di libertarismo e conoscenza di sé; il sesso e i rapporti con le donne.

Illustrazione di Marco Pacella

Illustrazione di Marco Pacella

C’è una sua dichiarazione che amo molto: «Per me il miglior tipo di comicità è quello che fa ridere le persone di cose di cui non hanno mai riso prima, e allo stesso tempo mette un lume negli angoli oscuri delle menti delle persone, e li porta alla luce». La stessa immagine che usa Diderot per definire la filosofia: «lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce». Ecco, Bill Hicks, è stato un grande filosofo. In un modo anarcoide e messianico, come una specie di incrocio tra Cristo e John Lennon ma ammantato dell’estetica western del cowboy solitario, Bill Hicks ha costruito un sistema di interpretazione del mondo basato sulla potenza del comico. Il riso è meccanismo di messa tra parentesi del luogo comune, di demolizione di ogni certezza indotta, di alleggerimento del peso della vita in una società massificata e opprimente, un modo di affrontare in maniera produttiva il dolore e la banalità. Pochi hanno usato questo strumento con la sua potenza poetica e visionaria.

Ogni 26 febbraio ricordiamo Bill, un uomo che conteneva moltitudini. Un comico e un filosofo, un poeta e una rock star, un satiro e un mistico, un predicatore e un ragazzo che avresti voluto come amico, un consumatore di droghe e un esploratore dello spazio interiore, un anarchico distruttore e un romantico amante del mondo nella sua varietà infinita di bellezza e abiezione. Thanks a lot, Bill. Forever, in peace.

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