La recita angelopoulos

Theo Angelopoulos, poeta di immagini

Il grande regista greco è stata una figura fondamentale del cinema d'arte europeo

Pochi giorni fa il regista greco Theo Angelopoulos è morto dopo essere stato investito da una moto mentre attraversava la strada, nella sua Atene.

Theodoros, nato ad Atene il 27 Aprile 1936, è cresciuto nella Grecia occupata della Seconda Guerra Mondiale e durante la successiva guerra civile (1946-49), esperienze che torneranno nei suoi primi film. Ha studiato legge all’università di Atene e Cinematografia all’IDHEC di Parigi. Comincia la sua attività di critico cinematografico ad Atene per il quotidiano “Allagi” dal 1964 al 1967 prima di diventare regista e protagonista della sinistra dissidente greca.

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Esiliato, si recò a Parigi e all’età di 33 anni diresse il cortometraggio La trasmissione (1968) che ottenne buoni consensi. Rassicurato da questo esordio, girò il thriller Ricostruzione di un delitto (1970) e la trilogia greca I giorni del ’36 (1972), La recita (Gran Premio FIPRESCI a Cannes, 1975) e I cacciatori (1977) sugli abusi dei vari governi avvicendatisi in Grecia. L’ultima pellicola della trilogia vinse l’Orso d’oro al Festival di Berlino. Dopo il quasi deludente Alessandro il Grande (1980) tornò nella sua patria e diresse il documentario Viaggio a Cyteria (1984).

Firmò poi il film Il volo (1986), girato con Marcello Mastroianni quale protagonista, dopo il rifiuto di Gian Maria Volontè; fondamentale è poi Paesaggio nella nebbia (Leone d’Argento e premio FIPRESCI a Venezia, 1988), romantica storia di due ragazzini che dopo varie peripezie giungono in Germania dove vive il loro padre. Firmò il suo capolavoro con la coppia Marcello Mastroianni – Jeanne Moreau nel film Il passo sospeso della cicogna in cui Marcello interpreta un poeta esule.

Il passo sospeso della cicogna, Theo Angelopoulos, 1991

Il passo sospeso della cicogna, Theo Angelopoulos, 1991

Dopo Lo sguardo di Ulisse (1995) iniziato con Volonté, morto durante le riprese, e continuato da un egregio Harvey Keitel, sulla guerra nell’ex-Jugoslavia, diresse Bruno Ganz in L’eternità e un giorno (1998); rispettivamente Gran Premio della giuria e Palma d’Oro al Festival di Cannes. Nel 2004, con La sorgente del fiume, realizzò il primo film di una sua nuova trilogia. Il secondo della trilogia, intitolato La polvere del tempo è stato presentato al festival di Berlino 2009. Angelopoulos si trovava sul set del suo ultimo film L’altro mare, dedicato alla crisi finanziaria e all’indebitamento della Grecia e dell’Europa, e ideale chiusura di questa seconda trilogia.

Nelle sue opere, al di fuori del conformismo della cinematografia greca del tempo, brillano un nuovo stile ideologico e un nuovo linguaggio filmico («Con o senza parola, il cinema è linguaggio, un linguaggio in continua evoluzione. Si cerca sempre di rinnovare il proprio linguaggio, si cerca di andare più lontano, di aggiungere ancora qualche parola…»). I suoi temi stilizzati, e tutte le sue più tipiche caratteristiche sono dirette a creare un diverso senso del tempo fino alla sua dissoluzione (in un’entità spaziale).

paesaggio nella nebbia angelopoulos

Paesaggio nella nebbia, Theo Angelopoulos, 1988

L’uso sapiente dei tempi morti, l’esaltazione del piano sequenza, l’utilizzazione dell’inquadratura fissa, il rifiuto deliberato e intelligente del passaggio cronologico dal passato al presente, la forte drammatizzazione che allude al substrato classico (Angelopoulos era convinto del carattere poetico ed educativo del mito) e la tragica dimensione dei caratteri dei personaggi, rappresentati sotto il peso della storia, mettono la luce su un destino umano universale raccontato al cinema in modo personale e straordinario.

Figura di spicco del “Nouveau cinema” greco, carattere non semplice, esigente, puntiglioso, Angelopoulos ha descritto meglio di tutti la condizione del suo popolo negli ultimi decenni. La Grecia dei suoi film è lontana anni luce dagli stereotipi di sapore turistico che ne hanno sempre caratterizzato le rappresentazioni. Nelle sue opere, spesso sotto un cielo grigio e piovoso, tra distese montuose desertiche, è emerso il cuore duro e profondo del Paese, quel nucleo di sofferenza che forse, solo oggi, con l’esplosione della crisi economica, è apparso chiaro agli occhi del mondo.

Questo era Angelopoulos, un poeta con la cinepresa. Al posto dei versi, le immagini; invece che la sintassi, il montaggio soffocato; il lirismo sostituito da meravigliosi piani sequenza. In questo rigore umanissimo di scelte stilistiche, in questo percorso filmico assolutamente unico, lo spettatore di fronte alle sue opere rimane abbracciato, cullato e spesso provocato in una continua e vera liturgia metacinematografica.

«Le sceneggiature sono scritte con le mie esperienze personali, con i miei sentimenti, quello che ho vissuto, letto o sentito. Cose che vengono dalla mia infanzia, dal mio ieri, dal mio adesso, tutto ciò costituisce quello che possiamo chiamare la mia biografia spirituale. Siccome i miei film sono sempre una specie di autobiografia spirituale, la poesia (anch’io ho cominciato scrivendo poesie) è il modo attraverso il quale comprendo meglio un fatto o, se si vuole, esprimo meglio un fatto. Questo è il motivo per cui io mi esprimo con la poesia. Il rischio dell’uso della parola è che questa possa fiaccare l’immagine. Però la mia sensazione è che la parola poetica in realtà moltiplichi la forza dell’immagine. Parola e immagine vengono insieme. Per me non possono separarsi. Non so se possiamo parlare di verità o di bugie. In questo discorso c’è sempre una zona oscura. L’importante non è la verità. E poi nel cinema non si ottiene altro che il verosimile. C’è in altre parole solo quello che chiamiamo senso della verità, ma non la verità. Credo che la memoria non sia né ricostruzione né ricreazione. Quello che chiamiamo memoria è qualcosa che esiste con noi e noi senza la memoria non esistiamo. Credo che la memoria sia il continuo riformarsi nel presente di un avvenimento filtrato dal tempo.» (Theo Angelopoulos – La scrittura del cinema)

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