The Nest
Un dramma familiare che evita la portata del mélo e preferisce le tinte fosche del thriller hitchcockiano per raccontare il declino di un uomo di successo.
The Nest è realizzato a quindici anni dalla morte del 40° Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, ex attore cinematografico, di cui in una delle prime sequenze si sente un discorso in sottofondo attraverso la televisione. Espediente utile per contestualizzare il periodo in cui il film ha luogo – gli anni ’80, con tutta la loro spinta economica, finanziaria e produttiva, dove molti giovani americani ambiscono ad un successo personale e professionale sfrenato. Parte da qui la storia dell’inglese Rory o’Hara (Jude Law), abilissimo commerciale nell’ambito petrolifero, che da dieci anni vive negli Stati Uniti insieme alla moglie americana Allison (Carrie Coon) e ai due figli; a fronte di un’interessante proposta di lavoro dall’Inghilterra dell’ex datore Arthur, Rory decide di accettarla e trasferirsi in un’immensa fattoria nel Surrey, permettendo anche a Allison di ripristinare la sua professione di insegnante di equitazione. Ma la nuova vita della famiglia si sgretolerà poco a poco nel privato e nel lavoro, crolleranno certezze e si apriranno fratture.
The Nest è un dramma familiare che evita la portata del mélo e preferisce le tinte fosche del thriller hitchcockiano per raccontare il declino di un uomo di successo; Jude Law è molto a suo agio nel rappresentare le diverse sfaccettature di Rory – uomo sicuro e rassicurante, determinato, poi aggressivo, incerto, pentito. Così anche Carrie Coon fa da ideale contraltare, costretta suo malgrado a diventare un’altra per seguire le (molteplici) opportunità di successo del marito. Il regista Sean Durkin imbastisce una vicenda dove la menzogna diventa essenziale per vincere (per lui) e per adattarsi (per lei); la conseguente perdita dell’identità è il naturale epilogo ad uno spaesamento già remoto e latente – il tentativo di Rory di portare il metodo americano a Londra è fallimentare e lascia presagire la sua natura priva di radici culturali salde (la famiglia aveva già cambiato casa altre volte e l’ultimo triste tentativo di lui di farlo di nuovo è sintomo di un’abitudine innata).
Quello che manca ad un plot allettante seppur delicato è un vero trasporto emotivo, una regia volta a discesa inesorabile ed esponenziale verso un oblio totalizzante; la capacità attoriale dei protagonisti non basta a compensare un’impostazione filmica volutamente statica, che anziché tratteggiare l’inquietudine – stile adottato ad esempio da Jordan Peele – appesantisce lo svolgimento e sembra trattenersi nel mostrare la voragine che a poco a poco si va ad aprire. Tendenza confermata dal finale aperto, interrotto: se l’obiettivo era chiaramente di non dare false speranze su una risoluzione impossibile della vicenda, il risultato è la sensazione che l’immagine si spenga qualche minuto prima del dovuto.