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The Hunt

Un film che scompiglia i rapporti di forza all’interno della dicotomia carnefice e vittima, verso una pirotecnica resa dei conti tutta al femminile.

Un film senza pace. Prima ancora della visione, ciò che rende meritevole di attenzione The Hunt è la vicenda editoriale decisamente tormentata. Al netto delle attuali difficoltà distributive, il titolo in questione ha già subito un considerevole slittamento, rispetto alla data di rilascio stabilita, a causa del controverso contenuto. Certo, la sinossi –in un ambiente rurale un vanitoso gruppo di ricconi caccia dodici esponenti del ceto subalterno-, liberamente ispirata al racconto del 1924 The Most Dangerous Game di Richard Connell, risulta di per sé scottante e complicata dalle tensioni successive alle sparatorie estive a El Paso e a Dayton. La gogna mediatica ha intaccato la campagna pubblicitaria del film con un portavoce d’eccezione nel presidente Trump che ha tuonato contro il film con un tweet al vetriolo («The movie coming out is made in order to inflame and cause chaos […]»). Dal canto loro, la produzione -quella Blumhouse Productions, capace, con titoli come Get Out e La notte del giudizio, di innestare efficacemente un impianto di discussione sociale su un film di genere– e la distribuzione (Universal Pictures) hanno poi intravisto lo spiraglio per una possibile operazione di hook marketing presso il pubblico, dando nuovo vigore ad una promozione apparentemente compromessa.

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Questa premessa di The Hunt finisce per condizionare prematuramente una visione che, invece, si fa apprezzare per mordacia, pur rimanendo negli schemi. Il clamore non è un completo abbaglio, i motivi di fermento politico sono sì presenti e delegati alla caratterizzazione delle due fazioni. Quella dei cacciatori è necessariamente ricchissima, sclerotizzata su posizioni liberal e progressiste e (auto)regolamentata da un rigido politically correct.  Quella dei dodici prescelti come prede è incline alla teoria del complotto, nonché all’utilizzo della Rete come strumento indispensabile dei «normal folk» per svelare e, conseguemente, demonizzare i raggiri perpetrati dalla «liberal elite». Questa polarizzazione della politica a stelle e strisce funziona a più riprese, servendosi del parossismo, come nella sequenza di targettizzazione delle vittime, attenta a non infrangere un presunto codice etico («If we don’t have at least one person of color in this, it is going to be problematic») oppure, ancora, nella scrittura del personaggio di Gary, fermamente convinto della falsità del gruppo di immigrati in cui si imbatte e, quindi, per nulla disposto a rivedere le sue posizioni in tema di immigrazione.

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Le perplessità, di fronte all’affrettata (e permalosa) lettura di The Hunt come bomba sociale ad orologeria, sono peraltro confermate da una sceneggiatura, firmata da Nick Cuse e Damon Lindelof, che tende a non prendersi troppo sul serio. Il film scorre, scompigliando i rapporti di forza all’interno della dicotomia carnefice e vittima, verso una pirotecnica resa dei conti tutta al femminile. La regia di Craig Zobel, se mai ce ne fosse bisogno, mitiga la materia ulteriormente con la divertita plasticità della messa in scena sia nelle grottesche uccisioni, sia nel combattimento corpo a corpo finale, tra l’imperturbabile eroina di turno Crystal (Betty Gilpin) e la perfida e iconica Athena Stone (Hilary Swank).

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Giunto nelle sale americane solamente a metà marzo 2020 e distribuito in Italia on demand a partire dal 27 dello stesso mese, il caso di The Hunt è destinato a sgonfiarsi, probabilmente anche presso i commentatori della prima ora, e a mostrarsi così, più lucidamente, con i propri pregi e difetti. La satira è godibile e l’assenza di uno sviluppo marcato del discorso sociale e politico piuttosto che dell’intrattenimento puro non è da intendersi unicamente un limite. Appare chiaro, tuttavia, che la potenzialità di paradigma sia necessariamente da ridimensionare, esito di una mistione fra sovrainterpretazione e contingenze.

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