The Hateful eight poster Tarantino

The Hateful Eight – Quentin Tarantino

Circa dieci anni fa, Quentin Tarantino affermava: «Di fatto, sto continuando a fare lo stesso film ancora e ancora e ancora». Osservazione provocatoria e non del tutto errata se consideriamo il sempre presente e ben calibrato mix di citazionismo, violenza, ironia tagliente e cultura pop che ha reso il regista di Knoxville una “sicurezza” per numerosi cinefili e fan, sempre in trepidante attesa quando l'ex “golden boy” decide di rimettersi al lavoro. The Hateful Eight, però, ci restituisce un autore, prima che regista, con una maturità tale da consentirgli di compiere qualche passo più in là, pur senza rinnegare il proprio passato.

In una recente intervista, Tarantino ha indicato cinque pellicole da vedere prima di questo suo “western da camera” : La cosa (John Carpenter, 1982), L’assassinio sull’Orient Express (Sidney Lumet, 1974), Il mucchio selvaggio (Sam Peckinpah, 1969), Hombre (Martin Ritt, 1967) e Karthoum (Basil Dearden, 1966); noi ne aggiungiamo altri due -– Ombre rosse (John Ford, 1939) e Le iene (Quentin Tarantino, 1992) –- ma la lista è decisamente più lunga. La costante voglia di celebrare la Settima Arte, però, questa volta non si riduce al citazionismo, e si palesa con un film girato in 70mm, formato inconsueto che si presenta come una vera e propria dichiarazione d'amore.

Dunque, tra gli omaggi e le note composte da Ennio Morricone, Tarantino ci porta in un Wyoming innevato, qualche anno dopo la Guerra di Secessione. A causa di una bufera di neve, due cacciatori di taglie – John Ruth (Kurt Russell) e Marquis Warren (Samuel L. Jackson) – la criminale Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh) e il rinnegato sudista Chris Mannix (Walton Goggins) cercano riparo in un emporio. Qui, anziché la proprietaria, troveranno il messicano Bob (Demian Bichir), il boia di origini britanniche Oswaldo Mobray (Tim Roth), il mandriano Joe Gage (Michael Madsen) e l'anziano confederato Sanford Smithers (Bruce Dern). Gli otto capiranno presto che prima di raggiungere la propria meta –- Red Rock -– dovranno salvare la propria “pellaccia”.

Collocare questa pellicola in un genere ben definito è impresa ardua, come di consueto d'altronde. L’ottavo film del regista statunitense, infatti, ha la struttura del western, con intrecci e risvolti da giallo à la Agata Christie e un epilogo da horror. La capacità di prendere tratti caratteristici di un genere e fonderli con quelli di altri apparentemente discordanti è una costante della sua carriera, riscontrabile sin dai suoi primi film. Le iene, infatti, ha le caratteristiche di un film d'azione se non fosse che manca proprio l'azione, mentre Pulp Fiction potrebbe essere collocato nel genere noir così come in quello drammatico (se proprio si vogliono far girare le scatole a Tarantino) o addirittura sfociare nella commedia. Fin qui, dunque, abbiamo fornito le informazioni di servizio, ma non c’è ancora nulla di nuovo.

Le novità, infatti, sono tutte in mano ai personaggi. Secondo lo scrittore statunitense David Kyle Johnson, l'universo “tarantiniano” è dominato da un lato dalla pietà, e dall'altro da vendetta e pena retributiva. Le ultime due sono molto simili tra loro e si differenziano dal carattere personale che la vendetta deve necessariamente possedere. La bilancia di Tarantino, è abbastanza noto, non pende mai dalla parte della pietà, ma in questo film tale sentimento è addirittura annullato. Così come viene annullata qualsiasi forma di vendetta. Eppure i protagonisti ci provano a metterla in pratica, ma con abili stratagemmi lo sceneggiatore annulla tutti i tentativi, per orientare i suoi personaggi su quella pena punitiva passata (quasi) sempre in secondo piano nella sua carriera ma che dona maggiore suspense in questa pellicola.

Ma ciò che appare più lampante è l'appannamento di quella patina pop, da sempre motore trainante dei suoi lavori. Criminali che analizzano il testo di Like a Virgin prima del colpo; killer che discutono sugli hamburger europei o sul cunilingus prima di far fuori dei debitori; uno spietato assassino che divaga sui supereroi prima di tentare di uccidere la donna che amava: questi espedienti hanno reso i personaggi di Tarantino talmente “cool” da poter giustificare ogni loro comportamento poco ortodosso. Nel suo ultimo lavoro, invece, i dialoghi sulla cultura Pop fanno spazio a quelli sulla segregazione razziale statunitense, rendendolo, sia pur con la consueta e familiare leggerezza, il film più politicamente impegnato del regista. Un percorso accennato in Bastardi senza gloria, ampliato in Django, ma che trova pieno compimento proprio in The Hateful Eight. Il rovescio della medaglia è che si tende a empatizzare meno con i personaggi, ma poco male.

Quentin Tarantino, quindi, sin dai suoi esordi ha sempre cercato il modo di scardinare le regole del gioco, ma questa volta è riuscito a infrangere anche le sue di regole, con risultati sorprendenti. Non è certamente il suo film migliore ma è sicuramente il più maturo.

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