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Pass Over

Tra teatro filmato e revisione storica e politica Spike Lee compone un ulteriore tassello nella sua personale esamina della questione razziale americana

Il progetto sociale e politico di Spike Lee, imperniato sulla questione razziale contemporanea americana, è destinato a sbarcare anche a teatro nel suo nuovo lungometraggio dal titolo Pass Over (2018). Il sodalizio teatrale/cinematografico è stretto con la Steppenwolf Theatre Company di Chicago e vede protagonisti Jon Michael Hill e Julian Parker, rispettivamente nei ruoli di Moses e Kitch, due ragazzi fermi all’incrocio tra la Martin Luther King Drive e la 64° che sognano della loro promised land, in attesa di essere salvati dalla violenza e dalle mancanze che la loro condizione ha unicamente da offrirli.

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Pass Over non è solo una semplice operazione di teatro filmato. Spike Lee cerca di connettere il materiale filmato con le persone, il pubblico di colore che si reca a teatro per vedere la pièce: in una rapida sovrapposizione la realtà diventa palcoscenico e ci si ritrova catapultati tra le frenetiche parole dei due giovani. «You kill me know!», «Bang Bang nigga!» e i due protagonisti cominciano subito a muoversi nel loro ambiente, la strada, quasi fossero – e il paragone può sembrare ovvio ma necessario – due novelli Vladimiro ed Estragone.

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Godot non è di certo una presenza eterea e filosofica come ha da sempre insegnato Beckett, quel che è certo è che in Pass Over tutto diventa esperienza: i sogni dei protagonisti sono prontamente interrotti da un colpo di pistola che introduce gli elementi bianchi della storia, Master (Ryan Hallahan) e il poliziotto Ossifer (Blake De Long). Dalla grande portata metaforica il personaggio di Master, personificando una presenza dai contorni ambigui, avvicina i ragazzi con un cesto pieno di cibo mettendo in scena un  perturbante pic-nic nel bel mezzo della strada.

Photo: Jeremy Daniel

Eccolo lì il sogno, la promised land, il cibo che fino a un momento prima i ragazzi erano in grado solo di immaginare. La macchina da presa di Spike Lee spia letteralmente i movimenti degli attori sulla scena, creando un linguaggio ibrido tra la composizione tecnica cinematografica e l’interpretazione teatrale dei personaggi in scena, riuscendo comunque a ridare allo spettatore l’illusione di una performance live grazie anche alla presenza degli spettatori in sala e delle loro reazioni. Le uniche forme attive che si alternano sullo sfondo scuro e la scenografia spoglia sono le sagome degli interpreti e questo fa sì che la concentrazione di chi guarda – sia esso a teatro o al cinema – possa essere focalizzata unicamente quello che accade sulla scena. Al grido di «Stop Killing Us», l’esperimento portato avanti in Pass Over segna un’evoluzione ulteriore del linguaggio cinematografico autoriale di Spike Lee che nel corso della sua prolifica carriera ha già avuto modo di destreggiarsi con il mondo del teatro: Bamboozled (2000), A Huey P. Newton Story (2001), Chi-Raq (2015) sono alcuni dei lavori più famosi con i quali il regista statunitense ha cercato di rinnovare e liberare dai luoghi comuni la figura dell’afroamericano.

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Pass Over si colloca quindi in un’atmosfera contemporanea ricca di volontà di rinnovamento per una questione dai tratti potenzialmente eterni nella società degli Stati Uniti d’America. In piena era della Formation, per citare anche quella branca di intrattenimento più popolare che comincia a prendere a cuore le battaglie del passato, Spike Lee non manca mai di ri-affermare l’attenzione sul lato forse più importante della trasmissione culturale: il pubblico. Nessun grido di rivalsa avrebbe avuto senso sul palcoscenico senza la presenza del pubblico, condizione che nel girato di Lee è sottolineata dall’interpellazione dell’attore verso l’occhio della macchina da presa, verso una platea “altra” rispetto all’hic et nunc della rappresentazione. Non c’è arte senza condivisione e non c’è possibilità di revisione critica storica e politica senza un pubblico capace di affascinarsi ed essere affascinato.

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