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Last and First Men

Il cemento ipnotico di Jóhannsson è un curioso esperimento che affascina e persuade

La trama può essere riassunta facilmente: un’opera singolare che combina filmati in 16 mm, bianco e nero, di monumenti “brutalisti” dell’era comunista jugoslava, con una colonna sonora minimalista e il testo tratto dall’omonimo romanzo fantascientifico del 1930 dello scrittore britannico Olaf Stapledon, letto in voiceover da Tilda Swinton. Niente di più semplice, no? Però non è tutto qua. Sotto c’è dell’altro. Negli unici due film che ha scritto e diretto, Jóhann Jóhannsson, scomparso prematuramente nel 2018, c’è una visione d’alterità umana e un senso di vuoto. End of Summer (2014) e Last and First Men (2020) presentano entrambi paesaggi lacerati dall’energia della vita umana. Last and First Men è stato girato da una parte all’altra della penisola balcanica.

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Gli unici soggetti davanti all’obiettivo sono gli “spomenik”, enormi statue costruite dopo la seconda guerra mondiale per commemorare i luoghi di violenza. Le figure sono basate su forme antiche e sconosciute, sembrano lontane da ogni comune esperienza umana. La narrazione della Swinton descrive una razza morente del futuro che parla alla razza morente del presente: noi. La musica di Jóhannsson si fonde con le registrazioni sul campo e scorre sotto la voce narrante. I suoni lavorano con le riprese molto lente dei monumenti, allontanando lo spettatore da un senso normativo del tempo. O meglio, la musica sembra accompagnare ad una percezione diversa del tempo mentre la macchina da presa riproduce la sensazione di presenza, di esistenza. Queste due forze sembrano essere più che sufficienti nell’universo cinematografico di Jóhannsson. Le condizioni rappresentate e le sensazioni prodotte non sono aride e vuote, ma al contrario, completamente formate e spiritualmente complete. Jóhannsson non ha rimosso le persone dal paesaggio per negarle ma per mostrarci ciò che è eterno. In Last and First Men, come nella maggior parte delle sue colonne sonore, Jóhannsson utilizza voci ed elettronica per aprire al timbro della più tradizionale sezione ad archi. È interessante come con il pieno controllo della sua esperienza cinematografica, non abbandoni del tutto la narrativa e la coerenza. C’è uno spazio liminale, tra l’orbita di Nettuno e la superfice di Venere, dove ci porta Jóhannsson e dove prova costruire l’identità di un genere umano eternamente in viaggio. Ma non ci si blocca lì. L’atmosfera di Last and First Men è oscura. C’è una possibilità che l’umanità possa sopravvivere, sebbene marginale, mentre le statue, massicce e illogiche, producono il sinuoso trucco del perdere la scala delle dimensioni. Questi “oggetti” sono alti due metri? Cento? Mille? Niente nella cornice consente il confronto. Sembrano le sentinelle del tempo stesso e, con lo scorrere del film, lo spettatore perde il controllo di tutto tranne che della narrazione.

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