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Italia 80

Quando la televisione provò a mangiarsi il cinema

Uno dei momenti sicuramente più interessanti della diciottesima edizione del Milano Film Festival è stata la retrospettiva ITALIA 80. Quando la televisione provò a mangiarsi il cinema. Vedere gli anni Ottanta al cinema, e vedere quello che il cinema ha raccolto e raccontato in quegli anni, così bui, così tristi. Ma nessuno in sala, in fondo, quegli anni li ha visti. Già nel decennio successivo, da quella rumorosa scatola colorata che è la televisione sarebbe uscita la politica del Paese, e ancora ci cova e sgomita.

Risulta essere molto interessante andare a vedere quando tutto, se così possiamo chiamarlo, ha iniziato a incrinarsi, nel campo che ci interessa: il cinema. Ovvero quando la televisione ha provato a mangiarsi il cinema, sia educando lo spettatore a diventare consumatore, sia costringendo il cinema, negli anni, a pensarsi per il piccolo schermo. Questa splendida retrospettiva è stata come aprire il vaso di Pandora, riscoprire storie, poetiche, registi e sfide produttive. Stiamo parlando del decennio “opaco”, “stupido”, “desolato” del cinema italiano: aggettivi usati da molta critica sul periodo. Ci mettiamo le mani da curiosi dell’immaginario e con la voglia di creare memoria. Facevano poi così schifo al cinema gli anni Ottanta? O erano, al contrario, per dirla con gerghi del tempo, più “tosti” del previsto? La risposta è la seconda per ricchezze tematiche e idee produttive, allo stesso tempo è interessante vedere il perché di tanto grigio.

Sono tanti i dati che raccontano come il pubblico del cinema sia scomparso dalle sale nel decennio e come quello che ci rimase abbia seguito, fondamentalmente, i blockbuster americani. Il declino in sala era già iniziato a metà degli anni Settamta, mentre sul piccolo schermo la liberalizzazione delle emittenti avrebbe portato al duopolio Rai-Fininvest. Di fianco a tutta questa confusione e volgarizzazione dell’audiovisivo nostrano, si è assistito a un aumento notevole degli esordi. Film spesso nati dall’indipendenza dei registi, spesso invisibili, ma figli di un cinema nuovo e giovane, nato e sviluppato completamente separato dall’industria. Scaricati dal sistema, gli autori si sono dovuti reinventare, dialogando chi più e chi meno con la televisione, cercando una propria identità.

La tragedia di un uomo ridicolo, Bernardo Bertolucci, 1981

La tragedia di un uomo ridicolo, Bernardo Bertolucci, 1981

È così giusto, doveroso e filologicamente corretto ripercorrere le strade di quel cinema, le spinte e le tensioni, cercando di prendere l’onda del decennio: uno sguardo “flessibile” per integrare e far interagire diversi punti di vista. È così che, tra i tanti registi già affermati al tempo, sono stati presentati soltanto tre titoli: La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci, Lunga vita alla signora! di Ermanno Olmi e Ginger e Fred di Federico Fellini, cronaca del fallito matrimonio tra televisione e cinema. Sono tre segnali che danno un largo tracciato alla via. Diversa ma congruente con un’esperienza indipendente allora già avviata come quella di Silvano Agosti, regista presente con Quartiere, con il fondamentale e splendido documentario fiume La macchina cinema in collaborazione con Marco Bellocchio, e allo stesso tempo scopritore di Franco Piavoli con Il pianeta azzurro.

Tra gli autori che erano raccolti sotto l’insegna del “nuovo cinema italiano”, è stata l’occasione di riscoprire Maurizio Nichetti con la versione restaurata di Ladri di saponette, uno dei pochi film che gioca criticamente tra la cornice filmica e quella televisiva e opera cardine nella lettura di quegli anni visti e vissuti al cinema; Salvatore Piscitelli con lo splendido, freddo e fassbinderiano Le occasioni di Rosa proiettato alla Mostra di Venezia 1981, Gianni Amelio con Colpire al cuore. In ricordo di uno dei registi più attivi del decennio, Giuseppe Bertolucci, proiezione speciale di Segreti, segreti. Non mancano culti noti (Ricomincio da tre di Massimo Troisi) e meno noti (la tossicodipendenza in L’imperatore di Roma di Nico D’Alessandria, capolavoro del cinema sperimentale italiano) e diversi recuperi necessari, uno su tutti, la biografia di Dino Campana raccontata in Inganni di Luigi Faccini, forse il film artisticamente più importante di quel periodo e premiato al Festival del film di Locarno 1985.

Maicol, Mario Brenta, 1988

Maicol, Mario Brenta, 1988

Estremamente interessante anche il tardo esordio iconoclasta di Cesare Zavattini con La veritàaaa, prodotto da Marina Piperno. Fondamentali Maicol lo spaccato di solitudine, disamore ed emarginazione estremamente milanese di Mario Brenta presente a Cannes e Berlino nel 1988, come Il sapore del grano, favola amara e drammatica di Gianni Da Campo. Infine, tra i film che meglio mostrano l’ansia di televisione, la storia di un gruppo di attori pronti a pagare per un provino a Drive-in (caposaldo del comico televisivo anni Ottanta) in Kamikazen – ultima notte a Milano di Gabriele Salvatores.

La disgregazione del sistema cinema che aveva centro a Roma, ha in realtà permesso l’emergere, anche con l’uso del video, di autori e realtà indipendenti troppo spesso dimenticate. A Milano la nascita di “Filmmaker” (1982) ha tenuto a battesimo un altro modo di intendere produttivamente il cinema, basti pensare a Giulia in Ottobre di Silvio Soldini o a Facce di festa, omaggio ai 30 anni di lavoro dello “Studio Azzurro” e di Paolo Rosa. In seguito, l’esperimento distributivo di “Indigena”, animata da Minnie Ferrara, raccolse autori dalle poetiche differenti (No Future di Giancarlo Soldi, Rosso di sera di Kiko Stella, Nome di battaglia Bruno di Bruno Bigoni), e sfociò nell’esperienza del film a episodi Provvisorio quasi d’amore diretto anche da Enrico Ghezzi e Daniele Segre. Tra i cortometraggi i primi lavori di Giuseppe Baresi, con Ship’s Lover, e Marina Spada con Un giorno dopo l’altro.

Uno sguardo anche al “Bellaria Anteprima del cinema italiano”, altro festival fondamentale nato nel 1982 (e con Pesaro unica piattaforma indipendente in Italia), con il vincitore della prima edizione, Come dire… di Gianluca Fumagalli, due esordi indipendenti come Sembra morto ma è solo svenuto di Felice Farina e La gentilezza del tocco di Francesco Calogero. Molto importante anche l’esperienza della scuola “Gaumont”, animata a Roma da Renzo Rossellini, che diede vita al film a episodi Jukebox, film metacinematografico collettivo di quattro episodi che si dipana nei giorni di passione di un produttore e del suo avvocato alla ricerca del nuovo autore del cinema contemporaneo.

Un discorso a parte merita Di paesi, di città trasmesso sulla Rai nel 1985, una serie in 12 puntate da un’ora, che racchiude i cortometraggi dei giovani talenti che ruotavano attorno al laboratorio “Ipotesi Cinema di Bassano”. Concepita non come una scuola ma come uno spazio creativo collettivo, Ipotesi Cinema è un’esperienza ineguagliata nel sistema cinema italiano. Fondato nel 1982 da Ermanno Olmi e dall’illuminato Paolo Valmarana, scomparso troppo presto, permise gli esordi di autori del domani come Archibugi, Zaccaro, Campiotti, Brenta. Di paesi, di città è anche una delle ultime forme di attenzione per il nuovo cinema da parte della tv di Stato, che presto riverserà le sue energie nella sfida al monopolio commerciale, un esperienza molto breve ma straordinariamente intensa.

A chiudere tutto rimane un solo film, un’opera allora trascurata ma che in un certo senso ha traghettato il cinema italiano verso gli anni 90. La stazione, un doppio fortunato esordio per la neonata “Fandango” di Procacci e per la regia del ventinovenne Rubini, che ben rende cinematograficamente il testo d’origine teatrale (Umberto Marino), inaugurando una via di resistenza autoriale all’affacciarsi del decennio successivo ancora più complesso.

Una retrospettiva che ci voleva, assolutamente, per dare visibilità a dei film che mai hanno avuto la possibilità di essere amati, ad un cinema che è sempre stato definito stupido, ad un epoca storica che la critica ha sempre classificata come buia e velocemente archiviata per non essere mai stata riscoperta. Torna nella mente l’immagine di Nichetti, regista che, entrato nel suo film per salvarlo dalla pubblicità, rimane rinchiuso e intrappolato per sempre nella scatola magica (?) della televisione. Questo forse è stato uno dei primi momenti in cui si è cercato di fare uscire lui e tutti gli altri autori e produttori che si sono spesi e spremuti per fare e vivere il cinema nei tormentati e tormentosi anni Ottanta. Complimenti.

Grazie


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