Immaginate una sera di primavera a Villa Torlonia. Il calpestio della ghiaia suggerisce, a seconda del suono emesso, quali «categorie» umane si riversino nel verde monumentale del parco: ci sono sneakers svelate dai pantaloni arrotolati fin sopra le caviglie e stivali borchiati che sbucano sotto vestitini provocanti (generazione «nativi digitali»); improbabili mocassini che incrociano i passi con tacchi vertiginosi e tremuli (generazione «apericena»); sandali stile frate francescano che procedono stanchi accanto a suole confort acquistate in parafarmacia (generazione «Ai tempi miei…»).
Tutte queste (dis)umanità, attirate nel meraviglioso teatro della villa romana, annullano il gap che le distanzia, finendone assorbite, da un’altra generazione, la generazione del(le) «3D» – distrazione, disinteresse, disaffezione – la Generazione Disagio.
E il disagio si avverte subito. Il rock inaspettato chi si infrange sugli affreschi della sala mentre si prende posto e una scenografia che lascerebbe pensare a un comizio di propaganda deviano l’orizzonte d’attesa: sul palco entrano quattro trentenni, quattro «non-così-adulti-da-essere-presi-sul-serio» né più giovanotti a cui tutto è concesso (Enrico Pittaluga, Graziano Sirressi, Alessandro Bruni Ocaña, Luca Mammoli, anche co-autori); sono i ragazzi che hanno stemperato gli ormoni con Baywatch e non hanno studiato inglese e informatica; sono i «coinquilini perenni», i «fuoricorso per sempre», i disoccupati per la poca esperienza o la troppa formazione; disimpegnati politicamente, disillusi dall’amore, dipendenti da youporn.
Eppure sono agguerriti, ma non a riprendere in mano la propria esistenza, piuttosto a rendere un gioco il loro annullamento, non fosse che per il gusto liberatorio dell’autoironia e del sarcasmo pungente. Ecco allora che i quattro disagiati diventano le pedine del «dopodiché», un monopoli della frustrazione, uno strampalato gioco da tavola – o meglio, da palco – dove l’ultima casella è l’agognato suicidio. Guidati dalla verve di un presentatore istrionico, ci sono il precario, il laureando e lo stagista che, casella dopo casella, sputano la frustrazione delle loro esistenze. Il pubblico è chiamato a interagire e, dopo l’iniziale imbarazzo, succede di tutto: tra imprevisti e lanci di dadi, pause smarthphone/selfie e prove individuali di foto profilo e lettera del suicida, il gioco volge al termine: la generazione disagio non ce la fa, neanche il suicidio riesce bene. Seppure disagiati questi quasi adulti hanno sviluppato una nuova, incredibile resistenza—tanto alla vita quanto alla morte.
Per cui non preoccupiamoci, era solo uno spettacolo, uno scherzo teatrale, solo un gioco. Meglio tornare a casa, villa Torlonia ora è silenziosa: kebab, controllatina a facebook, sguardo agli annunci posti letto in affitto, youporn e poi nanna.
Teatro Villa Torlonia, Roma – 9 maggio 2015