Cronache dal lido #6 – Venezia 76
La prima parte di Guest of Honour sembra non deludere le aspettative riposte nella regia di Atom Egoyan. Una giovane ragazza (Laysla De Oliveira), insegnante di musica, inizia a raccontare la storia del padre, morto da poco. Egli era un ispettore sanitario (un ottimo David Thewlis), che lo spettatore inizia a conoscere tramite le sue affascinanti incursioni dentro le cucine dei più disparati ristoranti, condotte con aria severa ed enigmatica. Il racconto della figlia apre però una zona d’ombra nella vita passata di entrambi. Lei è stata in carcere, accusata ingiustamente di aver sedotto uno dei suoi allievi; mentre il padre cercava in ogni modo di farla uscire, i due si confrontavano su un passato fatto di segreti e bugie. I piani temporali si intersecano e ed è qui che il film di Egoyan si inceppa leggermente, impedendo fino in fondo di capire i contrasti tra padre e figlia. Guest of Honour insomma si perde sul più bello, lasciando addosso l’impressione di una storia intrigante e perturbante ma forse non esplorata completamente. (Giulia Angonese)
Sic transit gloria mundi, come sono effimere le cose del mondo; con questo detto latino si apre il nuovo film di Robert Guédiguian in concorso alla 76° Mostra del Cinema di Venezia. È la pellicola stessa a risultare effimera e carente: la storia di una famiglia allargata di Marsiglia, partendo dagli episodi della nascita di una figlia e dalla scarcerazione del nonno, cerca di raccontare le crisi psicologiche e economiche della nostra contemporaneità, annoiando nel primo caso e fallendo completamente nel secondo. Temi come gli scioperi dei lavoratori, la perdita del lavoro ed il contrasto con i nuovi colossi del commercio vengono appena abbozzati, per far da contorno ad un arazzo familiare complicato ma poco interessante, composto da tradimenti, gelosie ed inganni. Gloria Mundi è tra i film meno riusciti di questa edizione veneziana, e, al contrario di altri esperimenti, come i poco apprezzati The Painted Bird e N°7 Cherry Lane, rifiuta la benché minima innovazione, guizzo, ma rimane stabile su una linea di formale mediocrità. (Andrea Damiano)
Shanghai, 1941, durante l’occupazione giapponese. Nel corso della prima settimana del mese di Dicembre, che avrebbe cambiato il corso della storia portando all’attacco di Pearl Harbour, nella città si combatte una guerra di spionaggio tra le forze alleate e l’intesa guidata dal Giappone. A Shanghai fa rientro l’attrice teatrale Jin Yu (Gong Li), coinvolta in una missione di intelligence. Grazie alle sue capacità interpretative, a lei è affidato il ruolo chiave all’interno della operazione. Ogni personaggio di questa trama indossa una maschera ed è portatore di un codice, la chiave per decifrarlo dovrebbe ricercarla lo spettatore. Piuttosto monocorde, girato in un bianco e nero preposto a facilitare la ricostruzione d’epoca, il film di Lou Ye, presentato in concorso a Venezia, nonostante le interessanti premesse scivola nell’esercizio di stile. Impegnativo per uno spettatore occidentale riuscire a cogliere, dentro un intreccio hard-boiled già intricato, il complesso quadro storico e geopolitico che gli fa da sfondo. (Stefano Lorusso)