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Cargo

Uno zombie-movie che cala lo spettatore nelle desolanti atmosfere delle badlands australiane, tra spiritualità, misticismo e istinto di sopravvivenza

Il pubblico cinematografico ha sempre subito il fascino del cosiddetto zombie-movie, dapprima come fenomeno di culto underground fino a farlo diventare una vera e propria manifestazione di cultura popolare. Il primo a traslare sul grande schermo questo prolifico filone orrorifico è Victor Halperin, con L’isola degli zombies (1932), attingendo a piene mani dal mito haitiano da cui la storia deriva. A dare nuova vita e slancio al genere più di trent’anni dopo sarà George Romero con La notte dei morti viventi (1968). Qui il regista italoamericano creerà l’immaginario che tuttora permane del non-morto, svuotandolo della sua componente magica rendendolo metafora dei problemi politici e sociali del tempo. Una ulteriore e significativa rivoluzione si avrà la successiva decade in territorio nostrano a partire da Zombi 2 (1979) diretto da Lucio Fulci. Qui i grandi autori del cinema di genere che popolarono gli anni settanta e ottanta, due fra tutti Lucio Fulci e Lamberto Bava, rivisitarono il precedente topos con l’estetica e la violenza che era tipica dell’horror italiano.
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Dopo questi tre importanti momenti lo zombie-movie sembra raggiungere il punto di saturazione, fino a perdere completamente significato e morire. Questo breve excursus ci porta fino al 2018 con Cargo, film Netflix che prova a incorporare e unire tutti e tre i modelli elencati. Diretto e scritto dalla coppia australiana Ben Howling-Yolanda Ramke, entrambi alla loro opera prima, e già autori del cortometraggio omonimo di cui il film è rifacimento. La premessa, non delle più sorprendenti, ci presenta un’Australia post-apocalittica dove Andy (Martin Freeman) e sua figlia neonata cercano di sopravvivere a bordo di una nave cargo. Quando Andy verrà a sua volta contagiato dal virus che rende zombie, cercherà nelle poche ore che gli rimangono qualcuno a cui affidare la bambina.
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Un’opera prima non ben consapevole della sua reale natura e che indugia troppo su ciò che davvero vuole essere. La componente horror e gore che il genere richiede è così poco marcata da essere quasi del tutto assente. Il costituente drammatico ed emotivo, invece assai ampio, molto difficilmente riesce a toccare o coinvolgere essendo questo accompagnato da un delineamento dei soggetti che lo subiscono totalmente nullo. Il tentativo inoltre di arricchire di spiritualità, misticismo ed elementi rituali delle tribù locali rende il risultato finale una insipida mescolanza di elementi troppo differenti per coesistere.
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Il duo Howling – Ramke ostenta invece una innegabile consapevolezza e raffinatezza registica, punto di forza della pellicola. Il tutto viene elegantemente fotografato da un abile Geoffrey Simpson, che non mancherà di farci tornare alla mente le desolanti atmosfere delle badlands australiane emblema della saga di Mad Max. Martin Freeman torna all’horror new age dopo il successo di Ghost Stories, facendo simpatia al pubblico più che impressionandolo. In conclusione un opera molto valida nell’estetica ma povera nei contenuti e nel ritmo narrativo. Caratteristiche queste che avevano fatto distinguere il cortometraggio originale ma che non riescono certamente a dare la stessa forza e sostegno ad una pellicola di cento minuti.

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