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Big Eyes – Tim Burton

Big Eyes racconta la vera storia di Margaret Keane (Amy Adams) e di suo marito Walter (Christoph Waltz), i cui dipinti dei bambini dai grandi occhi divennero un vero e proprio fenomeno negli Stati Uniti tra il 1960 e il 1970. La mano d’artista era di Margaret, ma Walter fece credere al mondo di essere il vero autore dei quadri, conquistando una fama internazionale del tutto immeritata. I due finirono con il divorziare, arrivando ad una battaglia legale senza precedenti: un’incredibile storia vera di una delle più leggendarie frodi artistiche della storia, con in mezzo una vera e propria rivoluzione della commercializzazione dell’arte, in una storia così incredibile da sembrare inventata.

Tim Burton dirige un’opera tanto attesa, oltre anche a produrla, avvalendosi del talento dei due sceneggiatori Scott Alexander e Larry Karaszewski (già vincitori di un Golden Globe per Larry Flint – Oltre lo scandalo), i quali, dopo il loro primo film col regista – Ed Wood – e venuti a conoscenza dell’incredibile storia di Margaret e Walter Keane, hanno cominciato a documentarsi su una vicenda che sarebbe diventata un film solo vent’anni dopo. Margaret in qualche modo incarna lo spirito del nascente movimento femminista, trasformandosi da una qualsiasi casalinga degli anni Cinquanta, che fa tutto per il marito, a una donna capace di rivendicare i suoi diritti, fino all’affermazione di se stessa, vissuta come una giusta e doverosa liberazione. Si passa poi anche a riflettere sulla concezione dell’arte: ostaggio del giudizio dei critici o popolare, nel senso di capace di massima diffusione, persino nei supermercati?

Ma il mattatore è il grande Christoph Waltz, a suo perfetto agio nei panni di un millantatore senza scrupoli, memorabile nella parte finale del film, dove sovrasta la sua partner, un po’ troppo “ingessata” nelle sue espressioni visive. Ritrovarlo ancora una volta candidato, se non vincitore, a un Oscar non sarebbe una sorpresa, così come meritano altri premi la ricostruzione del famoso locale in voga in quei tempi, l’Hungry i di una stupenda San Francisco, e i costumi.

È chiaro che siamo davanti a un Tim Burton – che qui combina le sue due grandi passioni, cinema e arte – lontano dalle sue tipiche atmosfere e dai suoi capolavori come Edward mani di forbice, Big Fish e La sposa cadavere, in cui prevale di più l’aspetto fantastico, per non dire favolistico e surreale delle storie raccontate; qui invece, siamo di fronte a una storia basata su fatti realmente accaduti, trattati con intensità e profondità, molto più vicino al già citato Ed Wood.

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