Foto di scena ©Manuela Giusto

La perdita dei padri

Il Romeo e Giulietta di Biancofango

Perché lottiamo? Per cosa lottiamo? Affermazione. Ma se non abbiamo nulla da dire, se non c’è nulla a sostenerci, cosa rimane?

È proprio da un vuoto che comincia il Romeo e Giulietta di Biancofango, da un’eredità che non si riesce a trasmettere, da due mondi paralleli e distanti che non sanno comunicare: poco importa se i padri siano quelli reali, ideali o culturali, il dramma è sempre lo stesso. Ed ecco allora che quando la paura del vuoto attanaglia, subito si cerca di riempire quella carenza con qualcosa, fosse anche la rabbia, purché tamponi il dolore.

Non facciamo in tempo a entrare in sala, infatti, che già le grida ci sbattono contro, lungo i corridoi: tra spintoni e insulti, una masnada di adolescenti sudati sta giocando animatamente sul palco a calcio. Nulla di strano, no, sono Montecchi e Capuleti, che si scontrano proprio come facevano quattrocento anni fa, destinati oggi come ieri alla sventura. E la morte, difatti, girovaga placida fra di loro nei panni scuri di Luca Tilli che di lì a poco con il suo violoncello darà voce al non detto. Appena più in fondo, infine, seduti in panchina, i due capifamiglia, o meglio, i due CT, osservano annoiati e indifferenti quel lento gioco al massacro (Simone Perinelli e Andrea Trapani, carismatici e misuratamente complementari).

Lasciati allo sbando, i ragazzi non possono che sporcare di rabbia stanca le occasionali battute del testo originale, ma non c’è trivialità, anzi, la tragedia shakespeariana brucia attuale sulle loro labbra, come una bestemmia impronunciabile di sentimenti repressi. E i due genitori, dal canto loro, si dimostrano i più colpevolmente ridicoli: nel ruolo paradossale di allenatori incapaci di impartire valori, tiranneggiano svogliatamente sulla gioventù, piegandola a un lassismo ideologico e sentimentale più crudele di una percossa.

Così, mentre si consuma la storia della coppia più famosa della letteratura, in controluce appare il dramma degli emarginati, di quei personaggi “secondari” costretti a patire il loro dramma “minore” al buio (disegno luci Massimiliano Chinelli): ecco allora Rosalina, primo amore di Romeo, sprofondare (una splendida epilessia à la Bausch) nell’ombra della nuova fiamma del primogenito Montecchi, o Paride, eterno pretendente di Giulietta, vedere i propri sentimenti manipolati come semplice mezzo di ricatto dallo zio Capuleti.

Se l’evoluzione dello spettacolo merita – decisamente – di essere più osservata che descritta, vale la pena forse portarne avanti la riflessione implicita.
Quando la messa in scena di un classico si discosta formalmente dalla sua rappresentazione canonica, capita spesso che si parli di “operazione di svecchiamento” o di “rilettura moderna”; così facendo, però, anziché sviluppare una continuità temporale, si vengono a creare due categorie separate e distanti, e di fatto, ancora una volta, si perpetra il dramma generazionale.

Il Romeo e Giulietta diretto da Francesca Macrì (che insieme a Trapani firma la drammaturgia) invece è, sì, contemporaneo ma nella misura in cui lo stesso Shakespeare era contemporaneo quattro secoli fa: la “contemporaneità”, infatti, non ha né una data di produzione né una di scadenza – e lo stesso vale per un’eredità culturale.

C’è un dubbio, piuttosto, che avanza irrisolto: se nella Verona del 1500 la figura di un principe illuminato super partes (prezioso cammeo in voice off di Federica Santoro) che veniva a sedare le lotte e condannare i peccati poteva essere concettualmente credibile, ora, invece, che insieme ai padri sono morti dèi, capi e ideali, quale voce può giungere a giudicare gli uomini? Chi o cosa, oggigiorno, può riportarci alla ragione?

Ascolto consigliato

Teatro India, Roma – 17 dicembre 2014

In apertura: Foto di scena ©Manuela Giusto

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