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Arcade Fire @ Arena Civica (MI)

Un’ora di concerto, sta sfumando la magistrale esecuzione di Neighborhood (Power Out) quando parte quel riff che manda la gente in visibilio. Semplice e secco, note che tutti riconoscono. È l’apoteosi di un set stupendo, intenso e trascinante, da numeri dieci dell’indie, conclusosi con una folle arrampicata sulle impalcature della struttura del palco ad opera di Richard Reed Perry, polistrumentista, che in Rebellion suona una cassa correndo come un forsennato per il palco: a dieci metri d’altezza, sospeso nel vuoto, con la bacchetta caduta a terra, continua a suonare la sua cassa con le mani.

Che il genio sappia di follia, non v’è dubbio. Ecco quindi che, attesi e acclamati come quanto di meglio la scena indie possa offrire dal lato mainstream, i canadesi Arcade Fire sbarcano a Milano nell’ambito del Jazz festival in una deliziosa serata di luglio nel suggestivo catino dell’Arena Civica, dove il caldo viene spento da una brezza gradevole e l’unica problematica per il pubblico è l’alto numero di zanzare, che però non influenzerà Win Butler e soci, per uno di quei concerti che, tu recensore ancora non sai, racconterai alla futura prole.

A precedere i fenomeni canadesi ci sono i britannici White Lies, che pur facendo del loro meglio e presentando i loro brani più conosciuti, fanno un poco fatica a reggere una folla così vasta e un palco così ampio, risultando nel complesso una non piccola delusione. Come ben sappiamo, fare da opening act a band così famose è un ruolo molto difficile, e qualcuno lo deve pur interpretare: e però, i quattro londinesi non si dannano granché per scatenare entusiasmi, limitandosi al compitino. Che stasera, sfortunatamente, non basta.

Non basta perché, per fortuna, intorno alle 21.30 compaiono sul palco gli otto ragazzi di Montreal, introdotti da un video che porta direttamente a Ready To Start, il pezzo che apre il set. Si capisce dalle prime note che i ragazzi si divertono, hanno voglia di suonare e lo fanno egregiamente: i tempi delle esecuzioni sono serrati, la versione dal vivo spesso è superiore a quella dell’album, il tutto condito da una dose di fantasia e variazioni che aggiungono molto alle già notevoli canzoni.

Il risultato è una esibizione gloriosa e intensa, che mette insieme le immagini in movimento del cinema di Spike Jonze con canzoni che sembrano fatte apposta per il cinema e per le colonne sonore e una performance che sembra una pièce teatrale, un musical. Gli Arcade Fire, dal vivo, sono Abba e Beach Boys shakerati nel rock, nel gospel, nell’indie, sono cinque o sei band raccolte in una sola. Il set lascia fuori, unica pecca, alcuni capolavori (come Modern Man e Suburban War) ma regala Keep The Car Running in versione semi-acustica con ukulele, No Cars Go che sembra suonata su un’astronave, la chicca di Win che dimentica le parole di Crown Of Love all’inizio della canzone, e alcuni passaggi sublimi come My Body Is A Cage e il già citato doppio uppercut Power Out-Rebellion. Non serviva quasi il classico rientro sul palco, che pure avviene con la catarsi collettiva di Wake Up, “la canzone che gli U2 non hanno mai avuto il coraggio di scrivere”, come qualcuno da qualche parte ha già scritto.

Fine della storia, e niente altro da aggiungere. Se ve lo siete perso, avete fatto molto molto male: il consiglio è recuperare al più presto. Questi sono gli Arcade Fire, hanno vinto un grammy, e sono quanto di meglio possiate ottenere da una indie band oggi, anno domini 2011. Amen.

 

5 luglio 2011

Grazie


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