Foto di scena ©Laila Pozzo

Animali da bar – Carrozzeria Orfeo

«La vita è ciò che ti accade mentre sei impegnato a fare altri progetti» cantava John Lennon. Per i protagonisti di Animali da bar forse sarebbe più opportuno affermare che, la vita è ciò che ti accade mentre sei impegnato a bere una birra in uno squallido bar. Cinici e spietati, sempre pronti a scagliarsi contro l’anello debole, questi reietti abitatori da bar, misantropi, looser senza apparente via d’uscita, tra un sorso di birra e uno di vodka, indossano delle maschere per sopravvivere a una vita di fallimenti, per riempire un’esistenza vacua, per adattarsi ai tempi che corrono.

Sono Milo (Gabriele Di Luca, anche autore), imprenditore ipocondriaco che gestisce un’impresa di pompe funebri per animali di piccola taglia; Sciacallo (Pier Luigi Pasino), uno zoppo bipolare che razzia le case dei morti il giorno del loro funerale; Swarovski (Paolo Li Volsi), cinico scrittore alcolizzato costretto dal proprio editore a scrivere un romanzo sulla Grande Guerra in occasione del suo centenario; Mirka (una strepitosa Beatrice Schiros), barista ucraina e grande bevitrice di vodka che si prende cura di un vecchiaccio misantropo e razzista (Alessandro Haber) presente solo con la sua voce tramite interfono. Mirka sta anche affittando il suo utero a Colpo di frusta (Massimiliano Setti) – il sesto «animale da bar» – attivista per i diritti dei monaci in Tibet e incassatore di giornaliere violenze domestiche da parte della moglie.

Il loro habitat è uno squallido bar di un’imprecisata periferia sfuggita alla gentrificazione, uno di quelli abitati da sinistri e pittoreschi personaggi che animavano i primi film di Scorsese o i romanzi pulp di Bukowski. In questo ambiente – come direbbe Dino Campana – à la «si salvi chi può», Swarovski, dall’alto della sua superiorità culturale, si erge a burattinaio e tira i fili delle sue marionette in carne e ossa al fine di mettere tutti contro tutti. Ne nasce una sorta di mexican standoff (leggi qui), in cui i proiettili sono sostituiti dalle parole taglienti di ciascuno di questi debosciati animali incattiviti.

Foto di scena ©Laila Pozzo

Ritmo serrato, sarcasmo, humour nero e un linguaggio che definire «di strada» non renderebbe propriamente l’idea: sono questi gli elementi che trasformano il bar in un vero e proprio campo da combattimento. I beceri protagonisti della pièce, infatti, sono alla costante ricerca del punto debole su cui sfoderare il miglior gancio a disposizione, un pugno sotto forma di turpiloquio che consenta loro di esorcizzare le proprie insicurezze, il dolore di una vita buttata al vento, frutto di scelte sbagliate o drammaticamente imposte. Perché cosa rimarrebbe a questi nichilisti allo sbaraglio se fosse loro negato di ferire il proprio compagno di bevute nel proprio bar preferito? Niente, il più nudo e crudo anonimato.

Foto di scena ©Laila Pozzo

«Lasciate ogni speranza voi ch’entrate», potrebbe essere questo il messaggio, scritto rigorosamente a penna, affisso sulla porta del bar. Una volta entrati non si può far altro che trascinarsi affannosamente verso un altro giorno, verso un domani senza salvezza o rinascita spirituale. Un pessimismo cosmico, una sfiducia del prossimo e del mondo intero di fronte al quale si rimane impotenti, spiazzati, inebetiti—specie se consideriamo il falso buonismo che pervade il nostro quotidiano.

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