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Ammore e malavita

Ludico e strappalacrime, il miglior film dei Manetti Bros.

In un momento in cui in Italia il crime postmoderno, con i suoi personaggi quasi omerici e i feroci racconti dei conflitti tra il male e il diversamente bene, occupa – meritatamente – spazi importanti fuori e dentro il cinema, la visione di Ammore e Malavita dei Manetti Bros. (Piano 17, L’arrivo di Wang) scuoterà lo spettatore un po’ come successe al guardiano della torre che si svegliò di soprassalto quando il cannone – che sparava ogni ora – quella volta non sparò. Il loro è un cinema sempre fatto di piombo e sangue ma che possiede anche un sincero e genuino debito di riconoscenza verso quella vasta filmografia di genere degli anni Settanta.

I luoghi sono gli stessi di Gomorra, ma se Le Vele di Scampia nella popolare serie sono schiacciate dal gelo e dalla violenza delle passioni criminali, qui mutano in sfondo per colorate coreografie musicali stile Bollywood e le strade di Napoli sono teatro di funerali farsa e grottesche rese dei conti.

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Come in un moderno Marchese del Grillo, Donna Maria (Claudia Gerini), stanca della pericolosa vita a contatto con la camorra, trova per i vicoli di Napoli una sosia del marito, “’o re d’o pesce” Don Vincenzo (Carlo Buccirosso), per inscenarne la falsa morte. A vigilare sulla loro sicurezza sono le “Tigri”, Ciro (Giampaolo Morelli) e Rosario (Raiz degli Almamegretta), letali guardie del corpo.  La stangata pare riuscire al meglio fino a quando viene ordinato a Ciro di uccidere una scomoda testimone oculare che si rivela essere Fatima (Serena Rossi), primo amore mai dimenticato del Killer. Vedi Napoli e poi muori?

Con dialoghi che citano e muoiono, attori navigati che offrono una prestazione ispirata, in Ammore e Malavita il tutto è maggiore della somma delle parti. Fluido e compatto nonostante la durata non indifferente, l’ultimo lavoro dei Manetti, sempre fuori dagli schemi, è sicuramente la loro opera più matura. I due registi romani si divertono come pazzi a girare un pastiche pieno di sparatorie con il ritmo e la tensione di quelle di Hong Kong di fine anni Ottanta, di esilaranti gag e canzoni impossibili da dimenticare, tra cui “L’ammore overo”, rivisitazione neomelodica di “What a feeling”.

I Manetti bros autori di culto lo sono sempre stati, i favori della critica li hanno conquistati nel tempo a colpi di film, ma ora con Ammore e Malavita hanno finalmente le carte in regola e le giuste circostanze di mercato – visto il rinato interesse per il cinema di genere-  per ottenere un buon successo al botteghino. Ludico e strappalacrime.

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