«Spinto dai disegni della terra come un’onda nel mare verso di te viene il mio corpo». Basterebbero questi due versi di Neruda per raccogliere e testimoniare l’esperienza del teatrodanza racchiuso in Alma. Un’anima tutta terrena, bizzarra, che tenta di librarsi in volo fra le onde nascoste dell’aria, come se fra le pieghe dell’invisibile, appesa nelle maglie di un sogno buffo e morbido, si celasse la scala di Giacobbe che porta oltre le nuvole.
Teatrodanza forse non è la parola adatta. Alma è un vortice di passi che si rincorrono su uno specchio d’acqua, come il gioco di un bambino che scaglia una pietra nel mare perché rimbalzi e piroetti in mille salti. Giorgio Rossi coglie la poesia della letteratura (Pavese, Merini, Neruda) e la elabora in un movimento mai prevedibile: armonico, clownesco, rantolante, euforico, delicato. La poesia danza, la poesia scherza: la poesia si manifesta.
Sempre in bilico tra il serio e il faceto, spezza, anzi, strapazza la forma con un trasformismo tutt’altro che smaccato: gli abiti sgargianti, gli accessori bislacchi, le pantomime caricaturate rivelano la maschera sorprendentemente evocativa di quella indefinibile creatura chiamata uomo, con un’arguzia e una profondità che ricordano l’inventario umano-artistico del recente capolavoro di Leos Carax, Holy Motors.
Volteggiando fra le note di una mappa musicale elegante e acuta (fra tutte l’incantevole Islands dei King Crimson), Rossi riesce a congiungere il fascino dello straordinario alla banalità del quotidiano con una malinconica semplicità da mimo, offrendo al rapito pubblico del Teatro dell’Orologio uno spettacolo divertente e profondo che continua a risuonare, forse ancora piú intenso, una volta lasciata la sala. Come sussurra l’artista: «Forse la vita dovrebbe essere come il silenzio che segue quando la musica è finita».