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Tutti Morimmo a Stento – Fabrizio De André

Qual è la prima associazione che fareste con la parola “Inverno”? Le risposte potrebbero essere molteplici e infinite: comunemente si pensa al freddo, alla neve, alle festività e così via. Io penso immediatamente a uno dei brani più intensi e profondi composti da Fabrizio De André, per l’appunto Inverno. Il pezzo in questione è contenuto in quello che è il suo miglior lavoro dal punto di vista della scrittura ovvero Tutti Morimmo a Stento (uscito nel 1968 e secondo album registrato in studio se non si tiene conto di Tutto Fabrizio De André del 1966).
Oltre ad essere una sorta di manifesto del disco, in quanto rappresenta benissimo il concetto della “morte” in senso lato e della rinascita, Inverno è la dimostrazione di come Faber non sia solo un cantautore e un cantastorie, ma soprattutto un poeta capace di analizzare la società e i suoi disagi con una prospettiva intimista della condizione umana, senza mai banalizzare le sue riflessioni. E questa capacità, associata all’efficacia e all’originalità comunicativa, fanno del cantautore genovese il più grande artista italiano degli ultimi cinquant’anni.

Parlare dei singoli brani sarebbe sbagliato, in quanto si tratta di un’opera globale i cui singoli pezzi sono legati dal filo conduttore della morte, appunto, l’unica certezza che accomuna tutti gli uomini. Ma non si parla solo di morte fisica, ma anche psicologica, morale, mentale (come lui stesso ha dichiarato in un’intervista televisiva del 1969) che siamo costretti ad affrontare durante il nostro percorso. Un po’ tutti moriamo e un po’ tutti rinasciamo, in attesa della fine. E Fabrizio racconta questi stati attraverso i personaggi più deboli ed emarginati della società, quelli che soffrono e subiscono maggiormente la condizione esistenziale. L’album, inquadrato nel contesto storico, fu rivoluzionario.

Prima di approfondire l’aspetto musicale, per rendere più chiara l’idea di “morte” di De André, è interessante riportare le seguenti parole che furono la risposta alla domanda di Vincenzo Mollica (durante uno speciale Tg1) “Di cosa ha Paura oggi Fabrizio De André?” Questa è stata la risposta:

«“Sicuramente della morte. Non tanto la mia che in ogni caso, quando arriverà, se mi darà il tempo di accorgermene, mi farà provare la mia buona dose di paura, quanto la morte che ci sta intorno, lo scarso attaccamento alla vita che noto in molti nostri simili che si ammazzano per dei motivi sicuramente molto più futili di quanto non sia il valore della vita. Io ho paura di quello che non capisco, e questo proprio non mi riesce di capirlo»”.

Queste parole, anche se dette in un momento successivo alla sua composizione confermano la mia idea che Tutti Morimmo a Stento, è non solo un concept album sulle morti e sulla comprensione di esse, ma anche un inno alla ricreazione dell’anima e una spinta alla reazione, consapevoli che un giorno o l’altro un’altra distruzione è dietro l’angolo.

Tornando alla musica, l’album ha la struttura della Cantata, tipica forma musicale dell’opera barocca, formata da intermezzi strumentali, recitativi e brani legati da un tema unico. Di barocco c’è anche il suono, nel senso che la musica si veste di una certa pomposità dovuta anche alla presenza dell’Orchestra Philarmonia di Roma e il coro P. Carapellucci diretti da Giampiero Reverberi (che ha contribuito insieme al fratello Gianfranco alla qualità tecnico-artistica del disco).

Risulta un crogiolo di differenti influenze: ritroviamo la poetica e la musicalità dei cantautori francesi (George Brassens su tutti), l’umore cupo e malinconico che ricorda molto le composizioni di Leonard Cohen e vi sono anche tracce di progressive (soprattutto per quanto riguarda gli intermezzi) – genere che in quegli anni vide il boom internazionale -, dovute probabilmente alle frequentazioni con i futuri membri dell Pfm, con cui in seguito avrà modo di collaborare.

Tutto quello detto sinora si rispecchia nel brano d’apertura Il Cantico dei Drogati caratterizzato da un lungo intro strumentale orchestrale prima che la voce greve di De Andrè pronunci le raggelanti parole “Ho licenziato Dio / gettato via un amore / per costruirmi il vuoto / nell’anima e nel cuore. / Le parole che dico / non han più forma né accento / si trasformano i suoni / in un sordo lamento.” Il testo del brano è costruita sulla poesia Eroina del poeta genovese Riccardo Mannerini e raccoglie gli ultimi “deliri” (“Io che non vedo più / che folletti di vetro / che mi spiano davanti / che mi ridono dietro) di un tossicodipendente in punto di morte. Estremamente laceranti sono i momenti in cui viene cantato il verso “Come potrò dire a mia madre che ho paura?”, in cui l’emotività e la disperazione raggiungono vette altissime.

Il Primo Intermezzo cambia completamente ritmo e mood e dopo il brevissimo intro di chitarra prosegue in una cavalcata crescente di suoni scandita dalle parole “Gli arcobaleni d’altri mondi hanno colori che non so / lungo i ruscelli d’altri mondi nascono fiori che non ho”. Cala la nebbia con Leggenda di Natale (che si rifà a Le Père Noël e La petite fille di Georges Brassens): questa volta le sonorità sono meno enfatiche e fastose, la chitarra ha il predominio. Il testo è agghiacciante e sembra quasi una sceneggiatura di un cortometraggio che racconta la fine ingiusta e brutale di una bambina vittima di un Babbo Natale Pedofilo. (“E adesso che gli altri ti chiamano dea
/ l’incanto è svanito da ogni tua idea / ma ancora alla luna vorresti narrare / la storia d’un fiore appassito a Natale“). Il brano mette al centro due temi cari a De André, ovvero la potenza che gli uomini esercitano su altri essere umani e l’incomprensione e la mancanza di logica di alcuni gesti (“Io ho paura di quello che non capisco”).

E questo tema è una sorta di punto di congiunzione con il Secondo Intermezzo (“Sopra le tombe d’altri mondi nascono fiori che non so”). La Ballade de Pendus di Francois Villon ha ispirato la successiva Ballata degli Impiccati che disegna un altro scenario desolante con protagonisti i condannati a morte: ritorna ancora una volta il tema degli uomini che decidono per altri uomini e nella quale viene fuori lo spirito anarchico di De Andre, inteso non in senso politico ma come rivendicazione di libertà e diritto alla vita (“Coltiviamo per tutti un rancore che ha l’odore del sangue rappreso / ciò che allora chiamammo dolore è soltanto un discorso sospeso”). Musicalmente parlando, le trombe danno una certa epicità al pezzo, dalle atmosfere da duello “western”, la sfida tra vita e la morte.

Un violino decadente e una tromba malinconica, che si sovrappongono a delicati arpeggi di chitarra introducono la splendida Inverno, nel quale viene introdotto un altro argomento caro a Fabrizio ovvero quello dell’amore e della ciclicità di momenti bui e positivi: un po’ la metafora della vita stessa («Ma tu che vai, ma tu rimani / vedrai la neve se ne andrà domani / rifioriranno le gioie passate / col vento caldo di un’altra estate. [..] Ma tu che stai, perché rimani? / Un altro inverno tornerà domani / cadrà altra neve a consolare i campi / cadrà altra neve sui camposanti»). Un’interpretazione impeccabile e da brividi: uno dei pezzi più brillanti e intensi della sua intera carriera.

In Girotondo viene fuori anche un’ironia nera: il pezzo dallo stile scanzonato e quasi goliardico (dovuto anche alla presenza del coro di bambini) si contrappone ad un testo che racconta tutti gli orrori della guerra e dei quali i bambini sono le prime vittime. Un altro macabro tassello all’irragionevolezza umana. Il Terzo Intermezzo (che dal punto di vista sonoro si distacca dai primi due e dove anche la voce è decisamente più profonda e baritonale) si ricongiunge a questo tema: “La polvere il sangue le mosche e l’odore / per strada fra i campi la gente che muore / e tu, tu la chiami guerra e non sai che cos’è / e tu, tu la chiami guerra e non ti spieghi il perché”.

Il finale è qualcosa di maestoso e memorabile: L’invettiva all’umanità del Recitativo si incrocia con il Corale (La Leggenda del Re Infelice) del coro di bambini e entrambi scorrono sulle note ampollose ma mai invasive dell’orchestra. Poetico, commovente e dal retrogusto dolce-amaro: “Non cercare la felicità in tutti quelli a cui tu hai donato / per avere un compenso / ma solo in te / nel tuo cuore / se tu avrai donato / solo per pietà per pietà per pietà”.

Tutti Morimmo a Stento è un capolavoro senza spazio e senza tempo, che emoziona, fa riflettere e dimostra le grandi capacità artistiche (come musicista e come poeta) di Fabrizio De Andrè; ma ciò che viene fuori in modo dirompente è la sensibilità con cui ci ha insegnato il senso della morte, ma soprattutto il senso della vita perché “sappiate che la morte vi sorveglia / gioir nei prati o fra i muri di calce / come crescere il gran guarda il villano / finché non sia maturo per la falce”.

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