«Shiny, shiny, shiny boots of leather, whiplash girlchild in the dark, clubs and bells, your servant, don’t forsake him. Strike, dear mistress, and cure his heart»… così, tra violini, tamburelli e la voce calda di Lou Reed ha inizio una delle più celebri canzoni dei Velvet Underground. Era il 1967 quando Venus in Furs apparve per la prima volta nel loro album di debutto Velvet Underground & Nico.
Per usare un espressione alla Vasco Brondi, «cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero?» Ci ricorderemo sicuramente dei Venus in Furs, non la padrona con frustino in mano, descritta nell’omonimo romanzo del 1870 di Leopold von Sacher-Masoch (prima ancora che lo facessero i Velvet Underground), ma di una band pisana che in pochissimo tempo è riuscita a farsi notare. Nell’estate del 2008 si insediano nel mondo musicale grazie alla partecipazione al Music Village di Catanzaro, e da lì sono una serie di successi: vincitori di Italia Wave Band Toscana edizione 2009 e di Lucca Summer Festival Giovani sempre nello stesso anno, ma non è finita qui. Una loro cover di Volunteers dei Jefferson Airplane è stata inserita nella compilation Woodstock 1969-2009 di XL di Repubblica. Di quest’anno è la notizia, invece, che Keep On, il circuito nazionale dedicato ai Live Club e alla musica dal vivo, li abbia inclusi nel novero delle 30 migliori band emergenti italiane. Questi sono solo alcuni dei maggiori riconoscimenti attribuiti.
I Venus in Furs hanno trovato anche il tempo per mettersi in studio di registrazione, incidendo il loro primo album. Siamo pur sempre animali è un disco energico, infuriato, è il grido di tre ragazzi poco più che ventenni, che in un mix favoloso di parole e note, esprimono la loro opinione, senza peli sulla lingua. Vengono influenzati perlopiù dalla British Invasion e dalla psichedelia americana, dal blues anni ’30 e dal motown. Hanno scelto di scrivere in italiano, per questo sono molto attenti anche al panorama del cantautorato e della Tv anni ’50/’60/’70. Tante sono tra l’altro le collaborazioni presenti con altri appartenenti a gruppi italici, tra cui Andrea Appino degli Zen Circus, Gianluca Bartolo dei Pan del Diavolo e Francesco Motta dei Criminal Jokers.
Il primo singolo estratto è Cecilia e la famiglia, ritmo incandescente, canzone di denuncia nei confronti di una famiglia come tante o forse denuncia nei confronti di quella prima figlia, Cecilia. Traspare rabbia dalla voce del cantante Claudio Terreni, il tutto addolcito dagli archi sapientemente utilizzati da Giampiero Silvi e un riff costante, il basso suonato da Marco Doni. Noia adolescenziale, sbagli, tristezza sono questi i temi strillati. Non si occupano solo di questo, però. Come leggiamo nella seconda di copertina a seguito di Siamo pur sempre animali c’è una postilla: nel bene e nel male. Quindi sembra che ognuno possa vedere a piacimento bontà o cattiveria in ciascun essere animale.
La scoppiettante Toc toc – non nego sia la mia preferita – è un manifesto di come tutto crolli, lo dicono i giornali, le ansa, le radio, la tv. La borsa, la fede, le torri gemelle precipitano e con tutto questo l’uomo. Nervosismi, isterismi, patologie affondate in circoli viziosi. L’organo di sottofondo, la batteria urla a perdifiato, battiti di mani, piedi scalpitanti a terra. Questa canzone non fa che dire kick up a row, guys! Ma questo è solo l’inizio della festa. L’amore ritorna in Nefasta in testa, la traccia con cui si apre l’album: istinti e passioni si mescolano. Dolore, grida e graffi sui muri, sulla pelle liscia, bollente. Tre minuti e undici secondi in una camera buia, sigillata dalla luce del giorno. Le dita impazzite sulla tastiera del pianoforte, virtuosismi di Nicola Baronti, movimenti veloci da una nota all’altra, così come veloci sono i sentimenti umani.
Io odio il mercoledì è forse tra tutte, quella che rappresenta di più l’ansia, soprattutto giovanile, ma non solo, nell’arrivare a fine mese, a volte anche a fine settimana, e combattere il dovere. Pagare bollette, pagare l’affitto, ma come? Non basta un diploma, una laurea, un master, non si è che l’ennesimo disoccupato della lista. L’insonnia è difficile da sconfiggere con tutte le preoccupazioni in testa e così la musica si arrotola in un turbine di inquietudine e di incertezze metafisiche realizzate mediante il sintetizzatore.
Ogni tanto la voce del cantante Claudio sembra quella dei Verdena in Il suicidio del samurai, le vocali allungate all’infinito, con un rantolo in gola debole, un singhiozzo di frasi e di ululati. Confessa ne è l’esempio lampante. Di natura più intimistica sono, invece, Naif e La vendetta di Praga. Muse sconosciute, regine di cuori accusate di troppa voluttà, di giovinezza venduta al miglior offerente. Giacigli sfatti, ricordi di un passato non troppo passato, chitarra acustica e violino in lontananza.
La vera sorpresa, come già annunciato inizialmente, è che questi tre giovani siano riusciti a richiamare tante nuove leve della scena italiana per partecipare attivamente alla composizione del loro disco. E’ lo stesso Claudio Terreni, voce del gruppo a raccontarmi dell’incontro con Appino, leader degli Zen Circus:
«L’incontro con Appino… Beh, inizialmente mi imbattei in lui qualche anno fa, usciva da poco Villa Inferno, e agli Zen Circus cominciava a girar davvero bene. Insieme ad un’associazione di gruppi emergenti di cui sono co-fondatore lo invitammo a prendere un caffè alla Tazza d’Oro (storico bar malfamato) di Pisa e a spiegarci un paio di cose sul mercato musicale e dopo un paio d’ore Appino si defilò per rispondere ad una mail urgente. Mi ritrovavo, però, spesso a fermarlo per Pisa vedendolo con la solita birra fuori dai soliti locali e a parte tutto, lui mi colpì molto perché si rendeva molto disponibile sia a spiegare che a dar consigli. Quindi immagina come io rimasi felicemente colpito nel vedermi il leader di una delle band del momento che si perdeva parte del suo venerdì sera a farmi luce su cose che lui stesso aveva imparato più o meno sulla pelle, sbagliando e risbagliando. Così man mano che noi preparavamo l’entrata in studio, un giorno lo chiamai forzando un po’ le cose e sperando nel tutto e per tutto dicendogli: “Oilà Nonno, senti, ho un pezzo nel disco che ho scritto mentre cercavo di copiare Vana Gloria (uno dei pezzi di Villa Inferno), alla fine è venuta un’altra cosa però tutto funziona, insomma, mi piaceva tirarti dentro, ti va? Magari ci metti una chitarra?” Lui un po’ colto di sorpresa mi rispose: “Ne sarei onorato. Mandami un mp3 via mail che quando posso gli do un’ascoltata”. Lo passammo a prendere con lo storico Volkswagen T2 arancione del ’72 (furgone che ha caratterizzato per un paio di anni i nostri spostamenti di gruppo) a Livorno e andammo verso Volterra, destinazione White Rabbit Hole Studio di Baronti Nicola (lo stesso Baronti che ci ha tanto aiutato in questi anni e creduto in noi co-producendo il disco, e lo stesso White Rabbit Hole Studio, 90 ettari di pura campagna toscana dove si son ritirati tra l’altro gli Zen per i provini di Nati per Subire e dove il Pan del Diavolo sta preparando proprio in questi giorni il prossimo Lp).»
E fu così che Appino marchiò con il fuoco della sua chitarra elettrica due tracce dell’album: Ogni mattina un nuovo disastro e In questa città. Quest’ultimo brano è la vera meraviglia. Sembra un’improvvisata tra amici che dopo essersi incontrati in piazza per puro caso, decidono di prendere in mano gli strumenti ed andare al parco a suonare tutti insieme. Effettivamente non è andata molto diversamente.
«Con il Pan del Diavolo invece l’incontro risale al 2009. Gianluca, che ancora non militava nel gruppo, lo conobbi a Catania in studio durante i giorni in cui registravamo. Lui al tempo suonava nei Granpa, il suo primo progetto che tutt’ora cura e di cui è uscito recentemente l’album d’esordio. Alessandro, invece, lo incrociammo lo stesso anno al Meeting Etichette Indipendenti di Faenza. Si mise ad improvvisare un live parterre chitarra acustica e cassa e benché lì per lì non lo avrei mai detto, ci lasciò tutti un po’ di stucco. Ero già d’accordo da un po’ con Gianluca nel volerlo assolutamente con noi e la sua 12 corde a suonare nel pezzo zeppeliniano che ci chiudeva l’album, In questa città. Ma loro giravano in tour molto spesso e non era facile beccarli in un day off o simili. Il tutto è stato molto più facile e spontaneo quando me li son visti apparire in studio (sempre al White Rabbit Hole Studio di Nicola Baronti) proprio uno degli ultimi giorni con tanto di Criminal Jokers (anche loro amici di vecchia data) al seguito per preparare il live set del Pan del Diavolo Band (con i Criminal nella veste della backing band). Li tutto si è compiuto: abbiamo creato dal niente il finale in crescendo, suonando tutti insieme (sixties style) con tanto di Motta pianista aggiunto».
Effervescente questa scena pisana, un polo che attrae magneticamente da tutt’Italia giovani e non-più-tanto-giovani a realizzarsi. Ho chiesto a Claudio se la partecipazione a Italia Wave e al Lucca Summer Festival li abbia in un qualche modo aiutati a farsi conoscere e ad incidere quest’album senza impedimenti. Lui mi ha risposto, da una parte confermandomi che la Toscana ha portato al risveglio dell’industria musicale italiana, dall’altra ricordandomi che chi ha vinto concorsi a livello nazionale come loro non ha mai la strada in discesa:
«Oggi la vita del musicista è dura, chi suona da prima di me dirà che una volta era ancora più dura, ed io magari lo dirò a qualche ragazzino fra un po’. Ora come ora un musicista deve saper scrivere, arrangiare, cantare, suonare, esser l’auto manager di se stesso, molto spesso il primo agente di booking, editore, ufficio stampa e magari anche discografico. Tutte cose interessanti a mio avviso, ma sfibranti, quando poi magari ti vedi sorpassato sulla corsia preferenziale, dopo anni di iper lavoro multi disciplinare, dall’amico di tizio o il cugino di caio. Per quello in tanti mollano. A volte, non lo nego, l’ho pensato anch’io. Credo che, però, il problema fondamentale siano gli spazi, spazi per promuoversi o per suonare, o per autofinanziarsi il lavoro nuovo in produzione».
Non credo minimamente che questo malcontento fermi i Venus in Furs, che sicuramente hanno molto da dire, essendo già pronti con il materiale per il secondo disco quando non è ancora uscito il primo. Non si fermano, ventenni indiavolati, indignati che non hanno bisogno di etichette, e che non trovando ragioni negli altri, le trovano in loro stessi e in quelli che vogliono sperare nel progetto degli emergenti. Una realtà del Belpaese che dev’essere curata e allevata, non allontanata perché non fa abbastanza figo o non è commerciale come lo si vorrebbe. Guai se tutti la pensassero così.